L ’eterno conflitto tra israeliani e palestinesi, uno dei temi di geopolitica più complessi e ingarbugliati di sempre, è tornato in prima linea il sette ottobre quando un’imponente offensiva di Hamas – senza precedenti per strategia ed efficacia - ha scatenato una guerra che già conta cinquemila morti. La vicenda, destinata a stravolgere gli equilibri internazionali, meriterebbe piena attenzione: invece sono in troppi a scegliere di documentarsi in maniera rapida e sommaria, cercando risposte semplici a questioni estremamente complesse.

E così, mentre una classe politica internazionale mai così debole si trova paralizzata davanti all’esplosione di un conflitto che il costante esercizio di una diplomazia ad alto funzionamento avrebbe potuto scongiurare (oliando costantemente quegli stessi ingranaggi che, improvvisamente, si sono inceppati) noi, frastornati da tanta imponente violenza, interroghiamo lo smatphone e domandiamo: qual è il motivo della guerra tra Israele e Palestina? E Google risponde: “Entrambi i popoli rivendicano il diritto a una terra che considerano la loro patria storica”. Qual è la differenza tra Israele e Palestina? E Google risponde: “Israele è uno stato sovrano con un governo e un sistema politico indipendente. La Palestina ha un’entità politica complessa: l’autorità palestinese gestisce una certa autonomia in alcune aree della Cisgiordania, mentre la striscia di Gaza è governata da Hamas”.

Chi ha iniziato la guerra tra Israele e Palestina? E Google risponde: “Il 14 maggio 1948, in seguito alla dichiarazione d’indipendenza israeliana scoppiò una guerra tra gli stati arabi, intervenuti a favore della comunità araba palestinese. Il neonato stato di Israele riuscì a prendere il controllo dei suoi territori e a respingere gli eserciti arabi”. Eccetera, eccetera, eccetera…

Al termine dei cinque minuti, parsimoniosamente stanziati per la comprensione dell’eterno conflitto tra israeliani e palestinesi, l’individuo frettoloso (l’onnivoro multimediale) è convinto di aver capito tutto: invece ha assimilato soltanto blande nozioni e confutabili definizioni che, però, sorprendentemente, gli bastano per formarsi un’opinione che, presto, verrà proclamata sui social network in forma di post o di commenti. “Io sto con gli israeliani!”. Oppure: “io sto con i palestinesi”. Come se fosse una questione di tifoseria: una semplice preferenza tra Milan e Juventus. I giovanissimi, poi, preferiscono informarsi in pochi secondi con i “reel” di Instagram e di TikTok, capaci di susseguirsi impietosamente: sempre carenti di approfondimenti, ma ricchissimi di sentimenti forti e di convinzioni sbandierate. C’è il politologo Norman Finkelstein - figlio di sopravvissuti ebrei del ghetto di Varsavia – che, nel 2009, denunciava a gran voce i crimini di Israele contro il popolo palestinese. E poi, subito dopo, appare l’ormai centenario diplomatico americano Henry Kissinger (anche lui ebreo, anche lui sopravvissuto all’Olocausto) che, interrogato da un giornalista sui pubblici festeggiamenti per le strade di Berlino – durante i quali molti arabi hanno celebrato il recente attacco di Hamas a Israele -, risponde: “È stato un grave errore che l’Occiente abbia consentito l’accesso a così tante persone di culture e religioni totalmente diverse fra loro.”

Ma cosa mai si potrà capire a fondo in questo modo? La frettolosa informazione in pillole che ormai dilaga online e che si sussegue come le imprevedibili e multiple riflessioni dei caleidoscopi, non chiarirà le idee a nessuno e, anzi, contribuirà soltanto a ingarbugliarle. Senza contare che la conoscenza tagliata con l’a ccetta – quella che pretende di attingere soltanto dai titoli e dagli slogan - non potrà mai aiutare a comprendere il rovello che oppone il popolo israeliano a quello palestinese e, di conseguenza, non potrà contribuire in nessun modo alla sua risoluzione.

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