G li italiani, inguaribili romantici e amanti delle iperboli. Le imprese sono grandi, i campioni straordinari, le sconfitte devastanti. Nella vita e ancor più parlando di calcio. L’Italia che per la seconda volta di fila non riesce a qualificarsi ai Mondiali è un dramma nazionale. Disastro, sconquasso, tragedia. Le definizioni sono queste. Ma si parla di sport, c’è chi vince, anche senza meriti come è capitato alla Macedonia del Nord, c’è chi perde, anche senza particolari demeriti, come è toccato in sorte all’Italia giovedì sera.

S e di disastro vogliamo parlare, non è in senso sportivo. Il danno d’immagine e economico causato dall’eliminazione della Nazionale di Mancini è grande. Il calcio ha da tempo smesso di essere solo un evento sportivo, il giro di denaro è vorticoso e spesso ai limiti del lecito. Non è un caso che i Paesi più aggressivi sui mercati internazionali si siano dedicati a promuovere l’attività sportiva di alto livello. Gli Emirati arabi, il Qatar, l’Arabia da anni sono impegnati ad attrarre a suon di milioni eventi di rilevanza mondiale proprio perché l’immagine che deriva da essi è di straordinaria importanza. Per l’Italia non potersi presentare a Qatar 2022 è un danno. Il brand Italia subirà un duro colpo nel momento in cui i mercati sono sotto stress sia per la pandemia che per il conflitto russo-ucraino. La kermesse mondiale ha una platea immensa, che abbraccia tutti gli angoli del pianeta e che coinvolge anche settori di solito poco attenti al pallone che rotola. Per i Mondiali tutti si trasformano in altrettanti appassionati, almeno per seguire le gesta della propria nazionale. Le aziende fanno a gara per diventare sponsor delle varie squadre, sapendo che la copertura mediatica è massiccia. In questo caso le imprese italiane resteranno al palo e mancherà anche l’indotto che i Mondiali determinano: per i bar e i ristoranti che trasmettono in tv le gare dell’Italia, per i giornali che riportano minuto per minuto il cammino della Nazionale, e così via. Il calcio italiano è lo specchio del Paese, la vittoria agli Europei di qualche mese fa è stato solo un paravento. Da molti anni il pallone italico è in crisi. I club si arrampicano sugli specchi ritoccando i bilanci con le plusvalenze (in pratica si gonfiano le valutazione dei calciatori) ma i nodi rimangono. Anzi, si aggravano. Le società legate ai proventi dei diritti televisivi hanno perduto la fantasia, l’inventiva, la voglia di migliorare. L’obiettivo non è vincere divertendosi e divertendo, ma conquistare un posto (la promozione, la salvezza, la qualificazione alla Champions League) che garantisca introiti per non fallire.

L’ultima frontiera è l’ingaggio dei calciatori stranieri. In Serie A il 64,3 per cento dei giocatori arriva dall’estero. L’assurdo si tocca nei campionati Primavera dove il 60 per cento dei ragazzi viene da altri Paesi, soprattutto africani. Perché? Molto semplice. Primo: grazie (o per colpa?) del Decreto crescita gli ingaggi dei calciatori stranieri sono tassati il 50 per cento in meno rispetto a quelli degli italiani. Secondo: i giovani che arrivano dai Paesi africani hanno spesso date di nascita “taroccate”. Terzo: acquistare calciatori all’estero permette trasferimenti di denaro poco trasparenti rispetto a quanto sarebbe possibile in Italia.

Un circuito perverso che ha determinato un drastico calo della qualità del calcio italiano. Sotto tutti i punti di vista: tecnico, economico, di sostenibilità del sistema. Il ct Mancini non è uno stupido e ha capito da tempo che la sua squadra aveva un problema in attacco. In semifinale e finale degli Europ ei ha collezionato due 1-1 con Spagna e Inghilterra prevalendo solo ai rigori. E nelle partite decisive per la qualificazione ai Mondiali con Bulgaria, Svizzera, Irlanda del Nord e Macedonia ha segnato solo due reti. Il 5-0 alla povera Lituania non fa testo. Mancini, verificato che Immobile, uno “spaccamontagne” in Serie A ma leggero come una piuma fuori dai confini, non ci avrebbe portato a suon di gol in Qatar, si è guardato intorno in cerca di un’alternativa. Ma non ha trovato un centravanti italiano di spessore internazionale. Ha persino spinto per la naturalizzazione di Joao Pedro, andato a un tanto così dal gol dell’1-1 con la Macedonia. Il rossoblù avrebbe potuto prolungare il precario cammino mondiale dell’Italia ma non avrebbe risolto i problemi strutturali del nostro calcio. Ora tutti gridano alla rifondazione. Saranno le solite parole al vento, il danno resta e non è da poco.

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