U n tempo si usava dire che la nostra economia, in mancanza di materie prime, fosse “di trasformazione”, concetto che presupponeva un lavoro qualificato di valore aggiunto, peraltro coerente all’assunto costituzionale di una Repubblica fondata appunto sul lavoro. Era anche pensiero acquisito che la ricchezza si producesse lavorando, risparmiando e investendo, in un ciclo economico virtuoso capace di migliorare la società e di accrescere prospettive e speranze.

Evidentemente negli ultimi decenni c’è stato qualche errore di indirizzamento e qualche “contrordine, compagni” di troppo se nella narrazione comune il lavoro è diventato un aspetto sgradito della vita, un inciampo e un castigo che conduce a decisioni consequenzialmente drastiche a livello sociale (il mancato investimento in formazione appare una strategia mirata a evitare che le prossime generazioni siano capaci di lavorare e pensare in maniera qualificata, e rimpolpino invece una fascia di sub-lavoratori ignoranti, indifferenziati e intercambiabili) e a livello individuale (decine di migliaia di persone si licenziano e altrettante non cercano neanche più un’occupazione per inseguire “un’esistenza più appagante”). Come dar loro torto se qualcun altro provvede a pagare minestra e bollette di fine mese?

La stessa “genitorialità”, orribile parola di vago sapore razzista (chi fa figli in un paese in spopolamento è ormai visto come categoria filosoficamente discutibile) è contrapposta tout court al lavorare.

C ome se nei secoli non fosse mai stato possibile gestire entrambe le incombenze migliorando l’umanità. Come risultato di questa colpevolizzazione del lavoro (agevolata da un trionfante e falsamente democratico assistenzialismo, dal miraggio della scorciatoia dell’appartenenza politica che assicura avanzamenti senza merito e da quella della finanza che promette di creare soldi senza lavorare) ci ritroviamo nella gabbia di un sistema fitto di dipendenze dall’estero. Le ripeto: finanziarie, energetiche, militari, di materie prime, di ricerca e per la stessa salute. Una gabbia che limita pericolosamente la nostra libertà e rende la nostra economia asfittica, in perenne e perdente rincorsa di quanto raggiunto dalla stessa Europa.

Negli ultimi 15 anni il tracollo: dal 2007 il Pil italiano che sfiorava i 1.900 miliardi di euro inverte la rotta e inizia a calare sino agli attuali 1.780 miliardi. Diminuisce anche la popolazione. Il Pil pro capite, che aveva raggiunto un picco di circa 32mila euro nel 2007, inizia quella che rispecchia la “decrescita felice” vantata dai pochi fortunati, mai recuperando i livelli pre-crisi per scivolare nel 2021 attorno ai 28mila euro. Cosa importa se: la ricchezza sia sempre più accentrata, oggi in mano a meno del 10% della popolazione italiana; il 70% abbia subito un calo del proprio tenore di vita con un crollo del 20-30% per i ceti meno abbienti; il 50,3% degli under 35 viva ancora con i propri genitori; il patrimonio immobiliare valga la metà; fenomeni come povertà, disoccupazione, sotto-occupazione e dispersione scolastica siano diventati endemici; il debito pubblico 2022 abbia oggi superato i 2.755 miliardi, nuovo record assoluto, e sia diventato negativo il deficit commerciale e tendenzialmente quello della bilancia dei pagamenti, indici importantissimi per gli acquirenti del nostro debito pubblico?Incapaci di spendere anche i soldi che ci spetterebbero, attendiamo invece ulteriore beneficenza, il Mes, gli eurobond, adesso il fondo Borrell per incentivare l’acquisto di armi. Da queste crisi sistemiche si esce solamente con un New Deal, favorendo il lavoro e l’economia, ma i messaggi che ci consolano vanno invece in direzione di un superiore assistenzialismo, quasi che l’Europa fosse capace di creare economia e reddito sovraordinati e non si limitasse a stampare moneta e a chiedere anch’essa risorse ai mercati. Si è tentato invano di rianimare l’economia con la finanza, con denaro a poco prezzo, acquisti di obbligazioni governative e sussidi miliardari. Oggi, con un’inflazione non certo “transitoria e contenuta” (Lagarde dixit) e una recessione da brividi, non si sa letteralmente cosa fare. Ci rimangono i soliti megafoni di chiacchere davanti ai cancelli chiusi, desolatamente senza lavoro.

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