Q ualche giorno fa, nel religioso silenzio di una chiesa quasi vuota, ho sentito squillare un telefonino. Incuriosito, mi sono voltato e ho visto una donna cominciare una conversazione in vivavoce con il proprio idraulico: “Ah! meno male che mi ha richiamato! Sì: è per quella perdita: continua a gocciolare. Non potrebbe venire stasera? E, allora, quando? Lunedì? Non prima?”

Tutto questo accadeva davanti alla tomba di Tintoretto: a pochi passi dalla statua della Madonna dell’Orto, nella chiesa di San Cristoforo, a Venezia.

L a voce della donna rimbombava tra le navate, valorizzata da un’acustica perfetta, capace di diffonderla in tutte le direzioni: proprio come le parole del celebrante durante la messa della domenica. Interdetti, i pochi presenti si scambiavano incredule occhiate di sconcerto. La donna, nel frattempo - pienamente a suo agio - continuava a tentare di convincere l’idraulico a occuparsi di lei, e del suo problema, il più presto possibile. Il telefonino, ormai, non stava più fra le sue mani: ma, per comodità, era stato sistemato sopra un banco della chiesa.

È chiaro: lo smartphone è diventato predominante nelle nostre vite e ha assunto una priorità talmente elevata da privarci dell’innata capacità di prendere la decisione più vantaggiosa. Lo si potrebbe addirittura annoverare fra i superstimoli: quelli studiati dal Premio Nobel per la medicina Nikolaas Tinbergen, che dedicò la propria vita a catalogare i loro effetti sulla mente umana e su quella degli animali. Gli scienziati Barritt Everitt e Trevor Robbins descrivono i meccanismi della dipendenza dai superstimoli come una transizione da azioni consapevoli ad azioni abituali che, poi, però, finiscono per diventare compulsive: dove l’atto compulsivo è l’incapacità di determinare se ci si trova a compiere una determinata azione soltanto per abitudine o perché lo si vuole realmente. “Voglio davvero rispondere al telefono in chiesa, davanti alla tomba di Tintoretto e alla statua della Madonna dell’Orto? Oppure sento l’irrefrenabile necessità di farlo, senza nemmeno più doverlo scegliere, come se si trattasse di un obbligo o di un’imposizione? Si potrebbe facilmente obiettare che si trattava di una telefonata urgente. A nessuno piace avere una perdita in casa e la provvidenziale chiamata dell’idraulico non si sarebbe potuta ignorare facilmente.

Eppure, a colpire più di tutto, è stata la naturalezza con cui la donna ha condotto la conversazione: la sua totale assenza di soggezione per il luogo sacro, o di riguardo nei confronti di chi si trovava lì a pregare. La donna non ha pensato nemmeno lontanamente di avviarsi verso l’uscita: non si è posta il problema di parlare a voce bassa, non si è nemmeno scusata con un cenno della mano: ma ha messo perfino il vivavoce e ha posato il telefonino su un banco della chiesa, parlando come se si trovasse nel salotto di casa propria.

Sembra una storia qualunque, una barzelletta. Invece è il termometro del degrado e dell’asservimento alle nuove tecnologie, che ci stanno cambiando e imbarbarendo. La conferma è arrivata due giorni più tardi nella Cappella degli Scrovegni di Padova. La gran parte dei ragazzi di una scolaresca non guardavano gli affreschi di Giotto ma gli schermi dei loro smartphone. Per quindici minuti avevano il privilegio di trovarsi davanti alla più grande opera d’arte della storia occidentale: ma la ignoravano, preferendo seguire quanto pubblicato dai loro amici sui vari social network. Davanti al richiamo tentatore di uno smartphone, insomma, né Giotto, né tantomeno Dio, contano più nulla.

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