I sussidi tendono a perpetuarsi da sé. Quando è stato dato il reddito di cittadinanza a oltre un milione di famiglie, non era chiaro in quale misura i meccanismi pensati per accompagnarli di nuovo verso il lavoro avrebbero funzionato. Ma era chiaro che quelle persone avrebbero fatto di tutto per mantenere il beneficio ricevuto, quali che fossero le intenzioni del governo sulla sua natura “temporanea”. Per la stessa ragione per cui i tassisti lottano con le unghie e con i denti per preservare il sistema delle licenze e le imprese che li percepiscono fanno quadrato a difendere i sussidi.

Q uel che lo Stato dà, lo Stato può anche togliere. In teoria. In pratica togliere vuol dire levare qualcosa a un qualcuno in carne e ossa, che è pronto a protestare per il beneficio perso. Da questo punto di vista, va riconosciuto coraggio al governo Meloni, che ha preso il toro del reddito di cittadinanza per le corna dopo aver mandato in soffitta i bonus edilizi. Il governo non è stato particolarmente radicale ma ha ridotto il numero di beneficiari, concentrando la misura su famiglie particolarmente svantaggiate, e ha “spostato” il centro delle decisioni dall’Inps ai comuni. Che misure assistenziali di questo tipo passino dalle municipalità, cioè dalle articolazioni territoriali più prossime alle persone, è la norma in tutto il mondo.

Oggi l’attacco al governo è nel merito e nel metodo. Nel metodo, molti sindaci dichiarano di non essere pronti alla “transizione” e questo è sicuramente possibile, anche al netto delle polemiche tra partiti. Nel merito, si accusa Meloni di fare “la guerra ai poveri” mettendo assieme questioni diverse, dal reddito di cittadinanza al salario minimo. Poche politiche sono più concettualmente differenti di queste due. Il reddito di cittadinanza dovrebbe, nelle aspirazioni di chi lo teorizza, essere un sussidio universale, che consente di vivere anche a chi non ha trovato il suo posto nell’economia di mercato. L’accompagnamento al ritorno nel mercato del lavoro è una aspirazione ma la ratio di misure di questo tipo è proprio quella di avere uno strumento per sostenere chi non ce la fa.

Il salario minimo è un prezzo amministrato. Nello specifico, il prezzo del lavoro. Fissato a un livello troppo elevato rispetto al salario di mercato per una certa occupazione in un certo luogo, può spingere verso l’economia informale i lavoratori meno qualificati. Esso non aiuta a far crescere gli altri salari e neppure contribuisce a rendere più facilmente “occupabili” coloro che non hanno un lavoro. Non è escluso che le proteste di questi giorni siano solo il primo colpo di cannone. Il momento è difficile, il carovita si sta mangiando il salario delle famiglie e il governo, sbagliando, tende a opporsi al rialzo dei tassi da parte della Bce. Una recessione non peggiorerebbe la situazione?

Si è molto parlato di debito buono. Meglio sarebbe parlare di crescita buona. La crescita buona è quella che poggia su fondamentali, per usare un’altra parola di moda, sostenibili. Non quella che è accesa dall’inondazione di moneta oppure da sussidi che finanziano la generazione presente a spese di quelle future. A dispetto dei trionfalismi degli scorsi anni, la notevole crescita italiana post Covid è stata in parte un rimbalzo, tanto più notevole perché più pesante che altrove era stata la mazzata alla vita economica data dalle restrizioni, e in parte l’esito delle spese stimolate da alcuni sussidi. Per aumentare i salari e gli standard di vita, serve crescita economica: non c’è altro modo. Questa dovrebbe essere la priorità di chiunque in Italia voglia che ci siano meno poveri e anche che chi povero tecnicamente non è pos sa arricchirsi. Riorganizzare l’assistenza e mettere in sicurezza le finanze pubbliche è un contributo necessario alla crescita buona. Il governo ha innanzi giorni di passione, dovrà sostenere i Comuni nel percorso, ma attenzione, nulla sarebbe più controproducente di una marcia indietro.

© Riproduzione riservata