S ono bastate due parole - gioco erotico - e l’orrore ha lasciato spazio a pettegolezzi, morbosità, pruriginosità.

Invece di andare a scavare sulla doppia vita di un assassino feroce che per sottrarsi alla giustizia non ha esitato a fare a pezzi il corpo di una giovane donna ci siamo concentrati sul dettaglio morboso di una vita che la vittima non ha mai nascosto.

Il massacro postumo di Carol Montesi non è il primo e, se non cambiamo mentalità, tutti, uomini e donne, giornalisti e lettori, non sarà neppure l’ultimo.

A ttrice hard, è inutile negarlo, quella sottolineatura cambia la prospettiva. Si aggiunge il porno e inevitabilmente il sottinteso è uno: alle brave ragazze non succede, un po’, dai, se l’è cercata.

Meno male che ci ha pensato il Gip: nell’ordinanza che ha messo le manette all’uomo inferocito per essere stato lasciato dopo che per lei aveva abbandonato la moglie, ha spiegato di quali terribile nefandezze sia stato capace al grido “ero innamorato”. Ci sarebbe da studiare un’aggravante ad hoc per chi si difende con quelle parole. Tutti noi intanto dovremmo correre ad abbracciare il padre della vittima, che davanti allo scempio ha detto in lacrime: “Ma quale hard, Carol era un angelo”.

Ecco: cosa ne sappiamo noi?, come possiamo entrare nelle scelte di chi sogna qualcosa di più per il figlioletto di sei anni?, perché pensiamo di dover giudicare la vita di una donna barbaramente uccisa, fatta a pezzi e poi buttata come uno straccio vecchio? Ce ne siamo accorti, tardi ma lo abbiano capito, e abbiamo cambiato modi e toni. Possibile però che sia successo ancora?

Le vittime non scelgono di essere tali e la morte non autorizza l’esposizione che sa di oltraggio del privato di chi non c’è più. Sarebbe perfino ora di mettere mano al processo penale che si dimentica strutturalmente di chi subisce un reato. Basti ricordare che nel patteggiamento tra accusa e difesa le parti offese non vengono neanche interpellate. Non avrebbe potuto dirlo meglio l’altra sera la ex procuratrice della Repubblica di Cagliari Maria Alessandra Pelagatti in un incontro pubblico su questi temi: “La vittima è la prima di cui si parla, la prima di cui ci si dimentica”. Vale per uomini e donne, per le donne un po’ di più.

Se poi non sono vittime è pure peggio: la preside che avrebbe avuto una relazione con uno studente maggiorenne della sua scuola, per esempio. Nessun reato né ricatti tantomeno ritorsioni, eppure di quella donna sappiamo tutto. Fermo restando che se il flirt ci fosse stato - lei nega - avrebbe violato il regolamento e anche la deontologia, dunque la notizia c’era. Ma di lì a diffondere un colloquio registrato di nascosto ne passa. Non solo: se la protezione mediatica vale per il ragazzo, altrettanto meritava la preside. Ha chiesto lei di dire la sua? Si può comunque scegliere di non esporla al pubblico ludibrio dei tanti pronti a scagliare parole come pietre. Del resto: del professore di matematica denunciato e sospeso per aver allungato le mani sulle sue alunne di 14, 15, 16 anni non sappiamo nulla. Eppure si tratta di fatti gravi, da accertare in sede penale. Parentesi: anche qui, la preside, sospettata di aver messo tutto a tacere, è finita con nome e cognome sui giornali. Lei sì, lui no. Perché? Dobbiamo porci queste domande noi che lavoriamo sulla cronaca e siamo nel contempo lettrici e lettori: abbiamo cambiato approccio in tema di garanzie per gli indagati, è venuto il momento di pensare alle vittime e a chi non ha commesso reati ma – forse - violazioni disciplinari.

Ricordiamocelo la prossima volta. E non dimentichiamo che è una vit tima innocente pure Mariana Vyscemyrska, la giovane puerpera scappata dalle bombe di Mariupol. Le hanno dato della bugiarda, stava recitando, non fuggiva, era tutta una finta. Dopo il parto l’hanno ripresa mentre raccontava una storia diversa, o forse no, era la stessa, in un video tagliuzzato che la offre al mondo in modo osceno. Togliamo l’audio a quel filmato e guardiamo solo gli occhi: in quello sguardo c’è tutta la verità.

© Riproduzione riservata