N egli anni scorsi abbiamo assistito a molte elezioni sorprendenti, queste non lo sono state. L’esito è il più confortevole per la maggioranza di centrodestra: Fratelli d’Italia si conferma primo partito in Lombardia, ma la Lega non frana e una Forza Italia rinsecchita resta però un ostacolo invalicabile per chiunque voglia immaginare un “centro” senza Berlusconi, finché lui resta in campo. Meloni ha di che essere contenta. Aver vinto ma non stravinto è per lei l’esito migliore, perché cheta le ansie dell’alleato-rivale Salvini. Il Pd è un ectoplasma del partito che fu di Veltroni e di Renzi.

I due “terzi poli” per motivi diversi restano al palo: il gioco delle alleanze è risultato poco comprensibile, Pd e Cinque Stelle si sono uniti dove questi ultimi contano poco, in Lombardia, e non nel Lazio, e con Calenda/Renzi viceversa. Calenda ha parlato, in Lombardia, di voto ideologico, per dire che è incomprensibile la conferma, così schiacciante, di un Presidente come Fontana che col Covid ha avuto molte difficoltà. In realtà sia Calenda che Conte hanno dovuto confrontarsi con regole del gioco che non potevano premiarli. L’elezione a turno unico del Presidente di Regione canalizza l’attenzione sul candidato alla carica più rilevante e nel contempo scatena la corsa alle preferenze, all’interno dei singoli partiti che corrono con un sistema proporzionale. È dunque, dei diversi meccanismi che regolano il gioco elettorale in Italia, quella che più mette sotto i riflettori le singole persone. Il che non necessariamente significa che i votanti premieranno il “merito” individuale ovvero la preminenza nella rispettiva professione o il rilievo mediatico (la bocciatura del tele-virologo Pregliasco la dice lunga, perlomeno sul buon senso dei lombardi) ma quanti ritengono che possano intercettare le loro esigenze, all’interno dell’amministrazione. Essere famosi in politica aiuta ma non basta, verrebbe da aggiungere: per fortuna, anche se l’alternativa alla notorietà è spesso la capacità di soddisfare domande clientelari. In quest’ambito, i calendiani sono deboli e i pentastellati soffrono l’aver spostato su un altro livello lo scambio politico, con il reddito di cittadinanza che è stato (per usare l’espressione efficace di un ex ministro) la “cartolarizzazione” di tutte le promesse elettorali. Nel contempo, la componente maggioritaria dell’elezione porta i cittadini a privilegiare la stabilità o almeno la promessa di un voto utile. È tutto il contrario di un voto “ideologico”: si è portati a convergere sulle opzioni che possono effettivamente disputarsi il governo, privilegiando quella meno sgradita.

Il fatto che l’astensione sia stata così alta è un fenomeno che come al solito si presta a letture diverse. Senz’altro segnala la disaffezione dei cittadini per la politica (non è una novità). Visto da sinistra, questo suggerisce che i tentativi di mobilitare le proprie truppe con la retorica della democrazia a rischio e dei nuovi diritti civili, anche quando va in onda in prima serata per una settimana col Festival di Sanremo, non è forse la più efficace. Nello stesso tempo, chi non vota in elezioni il cui esito appare scontato molto spesso sceglie semplicemente di convalidarlo: non ha motivazioni a sufficienza per andare a votare e provare a contrastarlo.

Giorgia Meloni e i suoi però farebbero bene a non illudersi e a non pensare che un’opposizione tramortita consegni loro l’Italia per chissà quanto tempo. Dipenderà dalla loro capacità di realizzare qualcosa di utile per il Paese, che per ora non pare poi tanto scontata. L’era delle elezioni sorprendenti non è necessariamente finita. Gli elettori, quando vanno a votare, non s celgono astrattamente le sensibilità a loro più affini: scelgono dal menù di pietanze politiche disponibili, prendendo il meno peggio se la posta in gioco è chiaramente il governo (anche se di un Comune o di una Regione) oppure pigliandosi lo sfizio di mandare un “vaffa” a chi comanda, soprattutto se il loro voto non pare avere conseguenze immediate. Regole diverse pongono domande diverse alle persone, le quali per rispondere possono attingere solo alla limitata offerta elettorale. La lezione dell’Italia degli anni scorsi è che bastano pochi nomi e sigle nuove perché le loro risposte cambino radicalmente.

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