I n una Sardegna dove si discute e ci si confronta sempre meno e con evidente malavoglia, il voler mettere al centro di un possibile dibattito l'attualità di una “questione sarda” potrà apparire un po' velleitario o passatista. Eppure, misurando quanto divida attualmente la nostra regione dal resto del Paese per benessere sociale e per sviluppo economico, il tema appare di chiara attualità. Perché non vi è molta differenza da quando, qualche secolo fa, il Tuveri ed il Lei Spano l'avrebbero posta come problema nazionale, denunciando l'avvilente arretratezza dell'Isola rispetto alle altre regioni di terraferma, per via delle colpevoli ingiustizie e delle discriminazioni subite dai governi nazionali.

Una “questione” che non avrebbe trovato soluzione definitiva neppure con la conquista dell'autonomia regionale, come strumento d'autogoverno, concessa dai Costituenti repubblicani nel 1948 grazie ad una combattiva pattuglia di deputati sardi guidata da Emilio Lussu.

Purtroppo non si discute più, né ci si confronta, sull'utilizzo delle risorse autonomistiche che vengono sempre più depotenziate dalle crescenti protervie centraliste dei governanti romani e, congiuntamente, dalle debolezze e dalle inerzie delle dirigenze regionali. Né pare venga posta molta attenzione al fatto che si vada sempre più aggravando la dipendenza isolana dalle economie continentali e dai loro centri di comando, andando così incontro al pericolo di divenire sempre più sudditi di interessi e di decisioni altrui.

F atti già accaduti in passato - ricordiamolo - con la perdita della guida e del controllo dell'elettricità, del credito bancario, del trasporto aereo e così via. Tanto da dover ritenere che sia proprio quel “dipendentismo” strisciante il maleficio che è andato depotenziando di fatto il progetto autonomistico, ridando così attualità, e necessità, ad una questione sarda come denuncia di una penalizzante condizione di arretratezza e di insufficienze strutturali.

Sono i dati statistici a confermare la continua crescita della dipendenza. A partire dai beni più elementari come quelli legati all'alimentazione. Basti pensare che a parità di volumi di consumi, se trent'anni fa la percentuale delle importazioni alimentari era sotto al 30 per cento, attualmente sfiorerebbe il 50 per cento! Un aggravamento che trova poi la sua conferma nella bilancia commerciale isolana che vede prevalere sempre più i valori delle merci in entrata su quelle in uscita (con un gap che ora si avvicinerebbe ai due miliardi di euro).

D'altra parte, d'una Sardegna in progressiva retromarcia se ne hanno continui riscontri, confermando i motivi di preoccupazione per un futuro gravido d'incertezze. Perché da una trentina d'anni a questa parte è iniziato per l'Isola il tempo del declino, che ha riguardato congiuntamente sia la drastica riduzione delle capacità produttive che la pesante perdita di efficienza e di capacità delle sue classi dirigenti. Un declino, aggiungiamo, ancor più grave, visto che i centri decisionali - da quelli dell'economia a quelli della politica - sono in gran parte emigrati altrove, al di là del mare, con il pericolo incombente di fare dell'Isola niente altro che una passiva destinataria di decisioni altrui.

Purtroppo, l'appannamento dell'orgoglio autonomistico, rilevabile in una classe dirigente impreparata ed anche raccogliticcia, ha portato ad accentuare sempre più quel “dipendentismo” che va condizionando l'intera società regionale. Anche perché va perdendo efficacia quella specialità che concedeva alla nostra autonomia maggiori poteri e risorse, oltre che più ampi campi d'azione, nei confronti delle regioni ad autonomia ordinaria. Con un aggravio ancora maggiore dato che va accadendo allorché queste ultime - specie quelle del Centronord - avrebbero assunto una posizione di crescente egemonia.

Ora, che esista un problema di crescenti disequilibri e di evidenti disparità nel Paese fra le diverse regioni lo si evidenzia con l'obiettività dei dati: mentre le regioni del Nordest avrebbero visto crescere gli investimenti pro capite dello Stato e delle sue aziende fra il 70 e l'80 per cento, negli stessi trent'anni in Sardegna si sarebbe consuntivata una diminuzione di oltre il 35 per cento!

Ed è proprio questa avvilente disparità, facilitata da una presenza sempre più egemonica degli interessi economici e delle pressioni politiche settentrionali e dalla contemporanea caduta di capacità e di prestigio delle nostre dirigenze, a far sì che la Sardegna ritornasse ad essere esclusa, al grande ballo degli aiuti di Stato, al pari di una cenerentola, tanto da rendere urgente l'orgogliosa riproposizione al Paese, con forza e coraggio, d'una “questione sarda 2.0” come doveroso risarcimento dei troppi torti subiti.

PAOLO FADDA

STORICO E SCRITTORE
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