T utto fa ritenere che con le vicende di Alitalia e di Autostrade stia tornando d'attualità - se per necessità subìta o per scelta consapevole, è difficile stabilirlo - il capitalismo pubblico, e che fra non molto lo Stato potrebbe tornare, come un tempo, a produrre un po' di tutto, dalle navi alle auto ma anche marmellate e panettoni. Attività, ricordiamolo, che furono dismesse e (s)vendute negli anni '90 sotto l'incalzare di un'ondata di critiche e di accuse che avevano coinvolto le loro holding pubbliche (Iri, Eni, Efim ed Egam), ritenute responsabili di un dissesto finanziario tale da costituire un peso insostenibile per il bilancio dello Stato.

Così all'Alitalia privata approdarono i “capitani coraggiosi” reclutati da Berlusconi, mentre Autostrade per l'Italia, con altre imprese della galassia pubblica, entrarono nello shopping azionario attivato dallo Stato, aprendo di fatto una intensa stagione di privatizzazioni tout-court, spesso dimostratesi solo apparenti od alquanto pasticciate.

Oggi, una trentina d'anni dopo, quella scelta parrebbe sfiduciata e rimossa, tanto da far rispuntare come centrale, e necessaria, l'opzione statalista, per via di una politica ritornata a voler essere la ciambella di salvataggio per le imprese sulla soglia del default o comunque in difficoltà. Viene così riportato in vita quel capitalismo pubblico, spesso privo di regole virtuose e di buone prassi, che fu causa ed effetto di grande inefficienza e di forti sprechi di pubblico denaro.

S i pensi che uno studio allora effettuato sull'intero sistema delle imprese a partecipazione pubblica, avrebbe messo in luce come, fatto eguale a 100 il loro fatturato annuo complessivo, i costi utilizzati per ottenerlo ammontassero a 110/115!.

C'è quindi da domandarsi se questo ritorno al passato rappresenti una rivalutazione dello statalismo come valido strumento di politica industriale, restituendo quindi alla mano pubblica un ruolo interventista nelle gestioni imprenditoriali; o se, invece, si tratti di un'eccezione, dovuta ad uno stato di necessità e di urgenza nell'emergenza (ma ci sono già dietro l'angolo i casi dell'ex Ilva e dell'ex Meridiana).

La preoccupazione è che la politica questa volta, dopo gli ultimi 30 anni di privatizzazioni e primazia del mercato, voglia sfruttare l'emergenza per tornare a governare direttamente il mondo produttivo nazionale. In altri termini, si ha l'impressione che l'attuale congiuntura sanitaria abbia riportato lo Stato ad essere di nuovo il punto di riferimento per i cittadini. Se così è accaduto nella difesa dalla pandemia da coronavirus - è il parere di taluno - altrettanto dovrebbe accadere per il rilancio dell'economia.

Quel che però sconcerta è l'improvvisazione e l'approssimazione con cui si va procedendo, tanto da ritenere che se le privatizzazioni si dimostrarono - come molti sostengono - un pasticciaccio, altrettanto possa accadere con queste ri-statalizzazioni. Anche perché le dichiarazioni governative che le hanno accompagnate, poco aiutano e, per certi versi confondono. Vista la presenza di quel corollario di vanterie e di populismo che l'economista Carlo Cottarelli ha efficacemente somigliato allo slogan “abbiamo sconfitto la povertà!”, gridato dal balcone di palazzo Chigi da alcuni esuberanti ministri (infatti “abbiamo ridato agli italiani! le loro autostrade!”, quasi fossero state in mano a chissà quali avversari, è stato il commento di un entusiasta ministro).

La domanda da porsi è se questa tendenza segni un effettivo ritorno ai fasti/nefasti delle partecipazioni statali, troppo presto dimentiche delle gestioni virtuose di Enrico Mattei e di Oscar Sinigaglia, per perseguire altre finalità, indirizzate più verso vantaggi politici (leggi partitici) che verso degli interessi pubblici (leggi generali). E la domanda ce la si deve porre soprattutto qui in Sardegna, dove alle imprese di Stato, responsabili ancora negli anni '80 di una buona metà del nostro Pil industriale, andrebbe addebitata la responsabilità di aver favorito, con le loro gestioni private da sani obiettivi gestionali, lo strisciante processo di deindustrializzazione che di fatto, e in meno di un decennio, ha cancellato, anche attraverso manovre in chiaroscuro, gran parte delle nostre fabbriche, lasciandoci un cimitero di ciminiere. Ed è per questo che a questa svolta del governo (se svolta sarà) verso la mano pubblica, si dovrebbe guardare con molta attenzione e con giusta cautela, perché i ricordi di quel che fu (mal) compiuto dal capitalismo di Stato, lungo gli anni '90, tra il Sulcis, Ottana e Porto Torres, i sardi non dovrebbero mai dimenticarlo.

PAOLO FADDA

STORICO E SCRITTORE
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