N ei primi anni '60 quel grande giornalista che è stato Indro Montanelli, scrivendo sul “Corriere della Sera” una serie d'articoli d'inchiesta dedicati alla Sardegna allora in piena euforia per la Rinascita, annotava come ogni nuova intrapresa rimanesse condizionata da rivendicazioni ed invidie localistiche.

Aspetti, a suo giudizio, di quel particolarismo sardo, di quell'essere da sempre “mal unidos”, che continuava a «sbriciolare in interventi sconnessi» ogni pur valida iniziativa. Tanto da rendere sempre più difficile indirizzare al meglio gli investimenti, dato che ogni villaggio pretendeva la sua parte «e quando non può far valere nessun requisito che ve lo qualifichi - aggiungeva - si appella ad un criterio di pretesa equità che non può condurre che ad una inutile dispersione di risorse».

Dopo mezzo secolo, ahimé, si potrebbero scrivere le stesse cose, dato che quelle contrapposizioni fra luogo e luogo sono tuttora d'attualità e, forse, sono divenute ancora più acute. Ora, se in passato ci si contendeva fra paesi vicini - è storia - per avere il campanile più alto o la caserma dei reali carabinieri, oggi si disputa sull'apertura di un museo o di una guardia medica, oppure, meglio, sull'inserire un compaesano nella giunta regionale. Per cui - è cronaca - l'esecutivo per essere veramente tale dovrebbe essere formato da rappresentanti dei sette od otto cantoni in cui si divide l'Isola. Quel che sembra interessare è ottenere il rispetto di quel malinteso criterio di disporre di padrinati territoriali. (...)

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