T odo cambia, dunque, e si guarda all'Europa. C'è un politico all'economia, perché la trattativa più delicata che ci attende è quella con Bruxelles. Con questo governo si cambia perché, in primo luogo, c'è davvero un segnale di discontinuità. Se si prova a pesare i nuovi rapporti di forza dentro l'esecutivo, se si vuole provare a capire che segno e che colore hanno la squadra che si presenta alle Camere (oltre al giallorosso delle forze che lo compongono) questa è la prima caratteristica della creatura che ha visto ieri la luce, dopo una complessissima trattativa.

Giuseppe Conte è rimasto fermo al proprio posto, ma per paradosso - proprio per questo motivo - intorno a lui, quasi tutto il paesaggio è cambiato. Restano (o tornano) i due capodelegazione, Luigi Di Maio e Dario Franceschini, restano i nomi pesanti (ad esempio Alfonso Bonafede), ma poi ci sono moltissimi volti nuovi. Sicuramente è proprio questo il primo segnale che invocava Nicola Zingaretti: il Conte bis è molto diverso dal Conte uno, non solo perché mancano, ovviamente, i ministri della Lega. Ma anche, e soprattutto, perché sono profondamente cambiate le squadre del Movimento Cinquestelle e del Pd.

Sorprende, più di tutto il resto, la radicalità del cambio operato da Di Maio: cinque ministri sono andati a casa, senza colpo ferire (e meno male che nel saluto alla squadra il capo politico pentastellato aveva detto: «Avete governato bene, sarete riconfermati»). In secondo luogo è un governo sostanzialmente paritetico, negli equilibri, fra le due principali forze che lo compongono. (...)

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