T occa tornare sull’argomento, anzi, restarci, visto che da settimane stiamo scoprendo un mondo orribile. Fatto di giovanissimi che approfittano in branco di due bambine di undici e tredici anni; di adolescenti che invece di soccorrere l’amica svenuta ne riprendono le parti intime col cellulare e postano il video; di utenti social che indagano fino a stanare la ragazza dello stupro di Palermo e ne diffondono i vecchi post, come se fosse una colpa, mentre altri, per difenderla, la citano per nome e cognome inconsapevoli del danno che le stanno facendo. Tanto da convincere i carabinieri a tutelarla mentre lei, mai visto prima, sfoga tutta la sua rabbia, sui social, e dove sennò?: «Non giudicate una donna stuprata». Vaglielo a dire che un comandante dei vigili commenta quei fatti invitando i genitori a insegnare alle ragazze a non bere.

E ancora, sebbene possa sembrare fuori contesto, invece sta alla base di una cultura diffusa che fa della donna un oggetto, quando non un pezzo di carne: una modella ricoperta di cioccolato viene offerta come dessert agli ospiti di un resort mentre gli iscritti di una palestra orinano in un sanitario che ricorda le labbra, con tanto di rossetto. Senza dimenticare il presidente di una federazione sportiva che in mondovisione afferra la testa di un’atleta e le stampa un bacio sulla bocca perché hanno vinto, ed è contento.

S iamo a questo, e tanto altro: c’è la dipendente che aveva denunciato il suo capo manilunghe salvo scoprire al processo che una grassa non può essere oggetto di attenzioni sessuali; c’è la giovanissima che aveva detto no, e lo aveva ripetuto, ma loro, erano tre, chissà come avevano capito sì, e il giudice ha detto che se una dice no e loro capiscono sì bisogna assolverli; c’è il bidello che palpava il sedere della studentessa ma era un gioco, perfino breve, assolto pure lui. E c’è la lettera del padre della sedicenne dello stupro di Capodanno: si rivolge alla ragazza di Palermo, in realtà a tutti noi. Ogni parola è un pugno allo stomaco. Parla del prezzo che si paga con l’esporsi in un mondo che consiglia il silenzio perché è una macchia essere vittima. «È uno stupro collettivo», dice davanti al dolore della figlia spezzata che lotta contro istinti suicidi, paure, anoressia. Parole forti ma vere: «Il gioco processuale sta a dimostrare che tu, come lei, volevate esattamente quello che vi è successo. Mia figlia l’hanno violentata, quelli che credeva amici l’hanno filmata e hanno riso della maglietta sporca del suo sangue. Gli altri l’hanno insultata per averli chiamati a testimoniare, e hanno minimizzato, anzi, lei ci stava, di più, lo faceva sempre, era una di facili costumi». Le stesse frasi scagliate contro la ragazza di Palermo dalla madre di uno degli arrestati, e contro quella di Firenze, e contro tutte, sempre, da sempre. Ora ci sono in più i video, il vero movente di questa violenza inaudita, perché il divertimento dei giovani senza presente e senza futuro, senza valori e senza passioni, senza emozioni e senza legge, è filmare e postare, forse addirittura vendere, in ogni caso vantarsi: “Cento cani su una gatta”. Racconto ignobile: ecco perché serve una punizione, solo dopo potrà esserci rieducazione e pentimento. Altrimenti finisce come il minorenne resipiscente in 24 ore: abbiamo visto cosa è stato capace di scrivere non appena varcata la porta del carcere, dov’è stato riportato di gran carriera. Mentre i suoi sodali venivano trasferiti per evitare che un altro branco, quello dei detenuti, applicasse la legge del taglione. Non si può consentire un tale scempio, certo, ma pretendere giustizia, questo sì. La rabbia di oggi conserviamola per confrontarla con quel che proveremo quando ci sarà il processo: sapremo ancora stare accanto alla vittima, anche se scopriremo che aveva la pancia scoperta, era ubriaca, drogata, disinibita e faceva video su TikTok? In caso di dubbi potremo ricordare il finale del flash mob che ha fatto il giro del mondo: “La colpa non è la mia, di come stavo o di come vestivo. Lo stupratore sei tu”.

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