L e cose nella storia raramente stanno dove le metti. I fondatori del Pd, nel 2007, pensavano di aver creato un “partito a vocazione maggioritaria”: un contenitore che non solo metteva assieme le due maggiori culture politiche del dopoguerra, quella comunista e quella democristiana, ma che poteva sottrarre voti agli avversari. Pescare, cioè, nell’elettorato moderato.Quel progetto nasceva soprattutto all’interno del ceto politico. Per i professionisti della politica, l’obiettivo della lotta politica è la conquista del potere, dal quale trarre, tanto per cominciare, di che vivere. Ogni elezione vede invariabilmente non solo un capo insediarsi a Palazzo Chigi, ma legioni di persone che hanno investito sulla propria appartenenza politica ottenerne, chi più chi meno, dei benefici.Il Pd ha saputo sedurre i moderati solo nella stagione di Matteo Renzi. Il cui stile personale, di segno berlusconiano, ha innescato fra i militanti una reazione a catena, la cui deflagrazione decisiva si è avuta domenica, con l’elezione di Elly Schlein. Con la quale il partito, ai voti dei moderati, rinuncia ufficialmente. Non è un caso se Schlein sia la beniamina dei militanti più che degli iscritti.

L ’utilità che costoro traggono dalla politica non è diretta: non scelgono una leadership immaginando che garantisca loro quelle che volgarmente chiamiamo “poltrone”. La partecipazione per i militanti ha una utilità psicologica, che viene dal trovare un megafono per le proprie ragioni. Che siano idee meditate e sudate sui classici del pensiero, o più estemporanei moti dell’animo, poco importa.È normale dunque che i militanti abbiano preferito la purezza ideologica, associata a Schlein, alle ipotetiche possibilità di riscatto elettorale, che erano un po’ la bandiera di Bonaccini. A maggior ragione dal momento che l’una è un fatto relativamente certo, l’altra è un’ipotesi di scuola.La questione più rilevante è di che ideologia Schlein sia la rappresentante in purezza. È presto detto: Schlein incarna la tendenza oggi maggioritaria nella sinistra internazionale, che ha scelto come terreno di lotta privilegiato le “guerre culturali”. Sui temi economici, Schlein è “a sinistra” di Bonaccini e forse pure del Movimento Cinque Stelle, sostiene che lo Stato debba essere “imprenditore” e che ogni tassa sia buona per combattere le diseguaglianze. Tuttavia, su questo fronte, le differenze a sinistra ormai sono minime: la vecchia componente riformista, quella che un tempo esprimeva gli Enrico Morando e i Pietro Ichino, non esiste più da anni.

Dove invece Schlein è effettivamente più radicale dei compagni di partito è sul terreno cosiddetto “dei diritti”, che ormai non significa più soltanto la richiesta di uguaglianza di opportunità fra i generi o per le minoranze, ma le rivendicazioni “woke”. Le quali sul tronco della teoria critica della scuola di Francoforte hanno innestato una battaglia senza quartiere contro lo stesso linguaggio comune, colpevole (nell’era pre asterischi) di consolidare le posizioni di potere.

Il “woke” è un’ideologia che fa dell’appartenenza razziale o identitaria il metro su cui giudicare ogni individuo ed esige non solo che la società compensi attivamente i torti commessi dai suoi antenati, ma che ciascuna persona si renda protagonista consapevole (risvegliato) di tutto questo: cambiando il modo in cui parla, le sue posture, rinunciando a pensieri ormai irrimediabilmente scorretti.Schlein non è il laburista inglese Jeremy Corbin, che era una specie di reliquia del mondo marxista miracolosamente sopravvissuta intatta. È invece l’avanguardia politica della migliore intelligenza di sinistra, la quale pensa di aver l’arma vincente contro il nemico di sempre: il capitalismo, la società borghese.I militanti del Pd l’hanno eletta proprio perché più allineata alle cose che leggono, ai guru che seguono sui social media, a quello che è ormai il loro pensiero. Ma farebbe bene la destra a non sottovalutarla. Non solo perché si tratta chiaramente di un politico capace, che ha espugnato il Pd a 37 anni (Renzi lo fece a 39). Buona parte della cultura popolare contemporanea (da Netflix alla Disney) è già su posizioni simili alle sue, quello che dice ricorda ciò che sostengono alcuni fra i più noti intellettuali pubblici del mondo.

Non si tratta di un leader solitario ma dell’avanguardia politica di un più vasto movimento culturale. Se le sue idee sembrano “radicali”, in realtà già la sua elezione a segretario inciderà sulla linea del politicamente possibile.Per contrastarla nel breve potranno bastare le smorfie delle vecchie zie ma nel medio termine serve qualcos’altro: la capacità di mobilitare pensiero, per una serena difesa del mondo che Schlein vorrebbe dinamitare. Una battaglia culturale, insomma, del genere che i moderati perdono regolarmente, di solito dopo essersi prudentemente astenuti dal combattere.

Direttore dell’Istituto “Bruno Leoni”

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