I l decisionismo è fatto di piccoli gesti. Il Consiglio dei ministri si convoca tradizionalmente di venerdì, a Giorgia Meloni non dispiace farlo di lunedì. È avvenuto per la riunione che ha gettato la notizia della tassa sui cosiddetti extraprofitti bancari come una bomba sulla borsa (aperta di martedì, non di sabato) ed è avvenuto di nuovo l’altro giorno per il Consiglio dei ministri che ha avviato, almeno sul piano del dibattito pubblico, il percorso verso la legge di bilancio. Era necessario? Abbiamo avuto dettagli che non potevano aspettare fino al termine della settimana?

N o, ma evidentemente la premier e il suo staff pensano che di lunedì sia maggiore il loro potere di agenda setting: che riescano, cioè, a influenzare in modo più significativo ciò di cui parlano i media e l'opposizione. Il messaggio è semplice: la strada è stretta. Il presidente del Consiglio ha rimesso la maschera della prudenza, che lo scorso anno le era stata utile per accreditarsi presso i partner europei. Sa che dovrà difendere il bilancio pubblico con le unghie e con i denti: un anno è passato dall’inizio della legislatura, i partiti vogliono spendere. Le elezioni europee sono alle porte e ciascuno dei partner della sua coalizione desidera uno scalpo da esibire innanzi ai propri elettori. Il ministro Giorgetti ha dato segnali di sobrietà: non è il momento.

L’Italia esce da una breve parentesi di crescita economica relativamente sostenuta, dopo anni di stagnazione. In larga misura quei dati positivi, improvvisamente vantati come una sorta di anticipo delle sorti magnifiche e progressive del Pnrr, riflettevano il rimbalzo post-Covid: tanto più rilevante perché molto pesanti per il nostro Paese furono la pandemia e le chiusure. Parte di quella crescita è dovuta al SuperBonus per l’efficientamento energetico degli edifici. Draghi l’aveva criticato, Meloni l’ha tolto, rivendicando anche lunedì il merito di aver posto fine a una norma che consentiva frodi ai danni dello Stato. È un tema sul quale dovrà tornare, nei mesi a venire, per distinguere fra crescita economica “buona” e “cattiva”: buona quella innescata da riforme strutturali e da dinamiche spontanee dell’economia, cattiva quella drogata, per esempio dai bonus. La premier ha promesso che il 2024 sarà l’anno delle grandi riforme: qualcuna dovrà arrivare, nei primi sei mesi. Ma quali? Per ora il centrodestra resta ai titoli, all’eterno catalogo delle cose che servono (fisco, giustizia, riforme istituzionali) che poi non si fanno mai.

Meloni avrebbe dalla sua la retorica giusta. La leader di Fratelli d’Italia parla di nazione e non di Paese e da sempre mette al centro dei suoi programmi l’interesse nazionale. Locuzione necessariamente vaga, ma che può essere declinata in termini di rigore delle finanze pubbliche. Che è una politica a tutela delle nuove generazioni. Mettere a rischio la sostenibilità finanziaria del Paese facendo deficit e quindi nuovo debito fa male a queste ultime e consolida l’impressione che l’Italia sia un Paese (una nazione) vecchia, interessata al suo presente, incurante del domani.

Il Paese (la nazione) è anche la sua Costituzione, la più bella del mondo ma evidentemente solo quando conviene. Essa prevede l’equilibrio di bilancio, innovazione terminologica del 2011/2013, ma da sempre aveva un articolo 81 che prevedeva l’equilibrio fra entrate e uscite, che è poi la stessa cosa. È la parte più disattesa del dettato costituzionale. Meloni sembra subire il vincolo di bilancio: da una parte cerca di tenere a bada la sua coalizione, dall’altra tratta sul tavolo delle nuove regole fiscali a Bruxelles. Viene da una storia di critiche spietate all ’austerità, vista come un dispositivo tecnocratico calato dall’alto. Tenere i conti in ordine però è il primo biglietto da visita per essere rispettati nel Paese e nel mondo. E un leader che sente tanto il tema dell’interesse nazionale dovrebbe intenderlo come un dovere verso chi verrà dopo di noi.

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