N elle previsioni autunnali dei giorni scorsi, il governo tedesco ha abbassato le proiezioni di crescita della Germania per l’anno in corso da +0,4% a -0,4%, di fatto segnalando l’avvio di una crisi economica. Il governo ha ridotto anche le previsioni per il prossimo anno, indicando una crescita dell’1,3% anziché dell’1,6%. Non è un dato di poco conto. Essendo la Germania il principale partner commerciale di molti Paesi dell’area euro, un suo rallentamento comporta conseguenze negative per l’intera Unione europea.

I l ministro dell’Economia, Robert Habeck, ha attribuito i problemi economici del suo Paese all’elevata esposizione della Germania alle conseguenze dell’invasione russa dell’Ucraina, a causa della sua precedente dipendenza dal gas russo. «Quello che stiamo vivendo nel 2023 è ancora, in ultima analisi, riconducibile all’attacco di Vladimir Putin: gli alti prezzi dell’energia dovuti alla mancanza di gas russo hanno interrotto le relazioni di mercato globali e provocato l’alta inflazione, che viene affrontata dalla Bce con tassi di interesse elevati», ha dichiarato Habeck.

Dall’inizio della crisi pandemica la Germania ha registrato tassi di crescita modesti, se confrontati a quelli delle altre economie europee. Il Pil tedesco nel secondo trimestre di quest’anno si è collocato poco sopra il livello pre-pandemico, mentre molti altri Paesi europei hanno registrato una ripresa più marcata. Tuttavia, già prima della crisi pandemica era possibile notare alcuni segnali di debolezza. Di fatto, dopo un decennio di forte crescita, il Pil tedesco aveva cominciato a rallentare intorno al 2017-2018. La Germania ha già attraversato una lunga fase di stagnazione alla fine degli anni Novanta, legata alle difficoltà di integrazione tra l’Est e l’Ovest, tanto da indurre l’Economist a definirla allora come “il malato d’Europa”. Tuttavia, il Paese ha trovato la forza di far ripartire la propria economia nei primi anni Duemila, grazie in particolare alle riforme radicali del mercato del lavoro note come “riforme Hartz”, che hanno aumentato la partecipazione e ridotto i costi del lavoro attraverso una maggiore flessibilità in entrata. La fase di forte crescita iniziata attorno al 2005 ha raggiunto il suo culmine nel 2017, dopo di che è iniziata la recessione.

Se questa è la diagnosi, quali potrebbero essere le possibili vie d’uscita per evitare una crisi che trascinerebbe con sé l’intera Europa? In primo luogo, è opinione diffusa tra gli economisti che la Germania trarrebbe notevoli benefici da un incremento degli investimenti pubblici, la cui quota sul Pil è storicamente inferiore a quella media europea. Al riguardo, è a tutti noto che la Germania, spalleggiata dall’Olanda, è tra i paesi Ue maggiormente rigoristi nella politica di bilancio, spesso in contrapposizione con l’Italia e gli altri Paesi mediterranei considerati troppo spendaccioni. La politica economica ottimale in Europa in questa fase storica sarebbe perciò quella di maggiore rigore di bilancio dei Paesi mediterranei, accoppiata ad una maggiore spesa pubblica in Germania e Olanda. Gli investimenti andrebbero focalizzati soprattutto nella transizione energetica e nella digitalizzazione. Peraltro, la necessità di riforme sembra essere ben chiara anche al governo Scholz, che ha riconosciuto il ritardo: «nel tempo necessario in Germania per pianificare e realizzare una singola linea metropolitana o un grattacielo, in alcuni paesi dell’Asia o dell’America si costruiscono intere linee ferroviarie e intere città», ha detto Scholz. La coalizione di governo è però divisa sulle misure da attuare in concreto e teme ripercussioni negative nelle urne, ricordando quanto accaduto con le riforme Hartz, che tra il 2004 e 2005 rilanciarono sì l’economia, ma costarono anche la sconfitta elettorale al governo socialdemocratico che le aveva promosse.

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