I l professor Giuseppe Lazzati, membro dell’Assemblea Costituente, diceva sempre che la prima riforma della Costituzione consiste nella sua applicazione. Credo che sia, ancora oggi, un’amara verità.

La Carta degli italiani, tra le più avanzate al mondo, sia sul fronte dei diritti fondamentali che su quello dell’organizzazione istituzionale, rimane di assoluta attualità e, dalla sua entrata in vigore, ha consentito al Paese di svilupparsi in un contesto di coesione sociale e di salvaguardia dell’assetto democratico, come è successo nella stagione del terrorismo degli anni Settanta.

Perché, allora, di quando in quando, si vuole mettere mano per cambiarla? Se andiamo a rileggere la storia degli ultimi anni, questo è avvenuto quando a capo del Governo si è affacciato un leader forte; è successo con D’Alema, poi con Berlusconi e infine con Renzi. Naufragarono tutti per la semplice ragione che la Costituzione non è e non potrà mai essere materia di lotta politica, di affermazione di un’idea sull’altra. La riforma costituzionale non potrà mai seguire logiche di coalizione.

Ora ci prova Giorgia Meloni, animata dalla stessa idea di Renzi: passare alla storia per avere riformato la Carta degli italiani. Fa riflettere la sua affermazione di qualche giorno fa. Riferendosi alle opposizioni ha detto: “Comunque vada, le riforme il governo le farà”. Come a dire, che il tema sta sullo stesso piano di un qualunque provvedimento in materia fiscale.

Da ll’altra parte, si vuole iniziare un percorso senza che vi sia una proposta su cui discutere. Si va a intuito. Parrebbe che la questione principale sia quella del premierato e della stabilità del governo: riformarlo per dare continuità alla sua azione. Ma siamo sicuri che si tratti di un problema? A ben vedere il Governo italiano è più stabile di molti altri dell’area europea. Da decenni la sua politica estera ed economica non subisce scossoni, non risulta che vi siano stati cambi di indirizzo significativi rispetto alle grandi questioni nazionali. Questo è stato possibile anche grazie alla lungimirante azione del Quirinale. Va da sé, poi, che la stabilizzazione dei rapporti tra Governo e Parlamento passa dalla legge elettorale, che, però, non fa parte della Costituzione. Tuttavia, un qualche aggiustamento può essere introdotto, tipo la sfiducia costruttiva.

La storia insegna che la Magna Charta di una Nazione si tocca quando vi è un forte sentimento popolare sottostante che va in questa direzione, quando fatti traumatici impongono ai rappresentanti del popolo di cambiare indirizzo e di adeguare le regole della comune convivenza alla nuova fase storica. Se mancano questi presupposti si rischia di sbagliare. Come, in parte, è successo quando è stata riformata la parte della Costituzione in tema di regionalismo. Tutto è avvenuto sotto la spinta secessionistica dell’allora Lega Nord. Il risultato è che è aumentato il conflitto tra lo Stato e le Regioni e che la Corte Costituzionale è intasata di ricorsi dell’uno contro le altre e viceversa.

Su questo fronte, un altro cavallo di battaglia è oggi quello del regionalismo differenziato. Se ne discute a dismisura sapendo in partenza che sarà una riforma impraticabile, sia per mancanza delle risorse finanziarie aggiuntive che questo intervento legislativo porrà a carico dello Stato e sia perché la presupposta legge sul federalismo fiscale (L. n. 42/2009) è di fatto lettera morta.

Che fare allora? Chiedersi, ad esempio, perché le riforme già fatte non funzionano e perché le leggi esistenti non vengono attuate. È risaputo che non bastano le leggi per dare efficacia all’azione di governo, che occorre il concorso della struttura amministrativa, ai vari livelli. Autorevoli studiosi ritengono che sia arrivato il momento di mettere mano, in modo consistente, all’organizzazione burocratica del “sistema Italia” per rendere certo, trasparente e incisivo il comando contenuto nella legge e meglio garantiti i diritti di cittadini e imprese.

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