D ecidere è anche “nominare”. Se non ce ne fossimo mai accorti, la cosa sarebbe di palmare evidenza in queste settimane. Ci approssimiamo al giro di valzer a capo delle imprese partecipate, che coincide con le assemblee societarie di aprile. I manager di quelle aziende sono impegnati in una campagna elettorale, movimentata al pari delle elezioni politiche. Complice pure il fatto che l’ufficio stampa delle imprese tende a identificare con troppa leggerezza l’interesse di quelle aziende con quello dell’amministratore delegato pro tempore, sui giornali si moltiplicano le dichiarazioni dei politici a vantaggio di questo o quello.

L’attenzione della popolazione è meno di zero, anche perché si tratta di nomi ignoti al grosso pubblico. È in buona sostanza uno scambio di pizzini a mezzo stampa, sono messaggi indirizzati al ministro del tesoro Giorgetti e soprattutto alla premier Meloni.

Si gioca con quello che una volta si chiamava il “manuale Cencelli”: diversi gruppi di potere usano la partita delle nomine per misurare le forze. A questo spettacolo non proprio edificante, siccome sanno bene come vada in scena indipendentemente dal colore della maggioranza, l’opposizione risponde invocando “competenza”. Parola ambigua, della quale si offre una declinazione altrettanto ambigua: piacerebbe che sulla tolda di comando finissero manager almeno equidistanti dai partiti, se non proprio vicini a quelli d’opposizione. I quali però dimenticano una cosa.

E cioè che, salvo pochi casi nei quali l’appartenenza è un aspetto sostanziale e non meramente utilitaristico, le convinzioni dei manager tendono a cambiare e ad allinearsi, per quanto possibile, con quello di chi controlla, in un certo momento, il grande azionista Stato.

Non c’è più davvero nessuno che parli di privatizzazioni, cioè dell’unico modo per sottrarre quelle imprese al controllo della politica e restituirle alla logica delle convenienze. Quella che premia (o punisce) un manager in ragione della sua performance, non del fatto che sia “vicino” a Tizio, “indicato” da Caio, “sensibile” alla istanze di Sempronio.

In realtà, se le invocazioni alla “competenza” sono in larga misura solo strumentali, è anche perché almeno parzialmente molte imprese di Stato sono state privatizzate e la presenza di azionisti privati, spesso internazionali, costituisce un vincolo alle scelte di Palazzo Chigi, chiunque vi sia domiciliato. Grandi fondi e investitori possono mandar giù quasi tutto, ma non proprio tutto, e non accetterebbero di buon grado la trasformazione, per esempio, dei maggiori player dell’energia del Paese in un bivacco di famigli e clientes. Gli uomini d’affari sono usi a farsi concavi e convessi ma con moderazione. Dalla loro, hanno un’arma decisiva: lo smacco, anzitutto reputazionale, che possono causare al premier con una fuga alla spicciolata dal Paese.

Più che di ritrovarci degli emeriti signor Nessuno al timone delle grandi imprese di Stato, dovremmo porci altri problemi. Almeno tre. Vediamoli.

Primo, attenzione a non perdere troppo tempo, inseguendo la tal nomina, anziché riflettere sui problemi del Paese. Le vicende societarie sono come un buon libro d’avventura, eccitano gli animi, ci fanno parteggiare per l’uno o per l’altro dei litiganti anche se ignoriamo chi siano. Proprio per questo possono essere una formidabile perdita di tempo: per chi ne legge e per chi vi si impegna.

Secondo, i politici non hanno gli strumenti per comprendere come devono funzionare realtà così complesse come quelle aziende, che spesso operano in mercati internazionali. Le loro scelte devono interessarci se non sono un mero sfoggio di potere, ma se pretendono di avere una visione “propria” dell’operatività di quelle aziende, che è improbabile un leader, anche il più informato, abbia.

Terzo, la visione servirebbe invece a un livello più generale. Quale deve essere il rapporto fra Stato e mercato, dove è bene che finisca uno e cominci l’altro? La premier una qualche idea in merito dovrebbe avercela, negli anni scorsi il senso comune suggeriva che lo Stato dovesse riprendere terreno: e quindi abbiamo visto nazionalizzazioni, più o meno surrettizie, e non privatizzazioni.

E ora? Che capiterà con il governo della destra? Su questo, non abbiamo ancora le idee chiare. Giorgia Meloni mescola richiami all’economia di mercato (lo Stato non deve disturbare chi deve fare) e invocazioni all’interesse nazionale che prefigurano uno Stato ancora più tentacolare. Sarebbe interessante se la partita delle nomine servisse almeno a captare qualche s egnale più chiaro. Purtroppo, per il bene del Paese, è molto improbabile che accada.

Direttore dell’Istituto

“Bruno Leoni”

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