I l trasformismo è parte della tradizione politica italiana. Non aveva però trovato ancora un interprete brillante come Luigi Di Maio: ieri populista arrabbiato, nemico appassionato delle lungaggini e delle storture della democrazia rappresentativa, assurto, anche un po’ suo malgrado, a incarnazione del motto del grillismo, uno vale uno. Oggi invece autore di una brillante operazione di palazzo, con la quale ha spaccato in due il suo ex movimento e acquisito il controllo diretto di una forte rappresentanza parlamentare. Quando i Cinque stelle vinsero le elezioni del 2018, alcuni commentatori forse un po’ ottimisti auspicarono che fosse possibile “romanizzare i barbari”. Verrebbe da dire che i barbari si sono romanizzati da soli.Gli storici del futuro si interrogheranno a lungo su questa strana legislatura. Si chiederanno come sia stato possibile che chi faceva campagna elettorale contro l’Europa dei banchieri poi abbia sostenuto un governo guidato dall’ex banchiere centrale europeo, che chi predicava l’antipopulismo abbia poi governato con i populisti, che chi voleva il vincolo di mandato sia diventato l’alfiere del primato della politica parlamentare. Per carità, in Italia i governi si fanno in Parlamento e i governi Conte e Draghi non sono stati eccezione alla regola. Ma l’impressione è che mai come in questa legislatura abbiamo avuto conferma della fine delle ideologie: nel senso che i leader si sentono svincolati da qualsiasi legame con un insieme più o meno coerente di credenze.

E adattano di volta in volta, con le migliori ragioni s’intende, la strategia e l punto di vista che più convengono loro.Questo vuole dire che è finito il populismo? Il populismo è, più che un sistema di idee, uno stile politico, un modo di parlare e di interloquire con gli elettori, che affonda le proprie radici nell’insoddisfazione per l’establishment (la casta) che regge le sorti del Paese. L’opposizione attacca sempre chi è al governo ma, nel caso del populismo, la critica esonda dagli argini tradizionali e travolge il complesso del “sistema”: le sue istituzioni, la classe dirigente non politica, eccetera.

La Lega, che col Salvini di lotta tendeva a prendere di petto le istituzioni europee, oggi è partito di governo e gioca, quando può, la carta della buona amministrazione sul territorio nel presentarsi agli elettori. I Cinque stelle sono ormai “normalizzati”: nella versione Di Maio, sono i pretoriani del governo Draghi ma anche nelle versione Conte hanno l’ambizione di essere un partito di sinistra “tradizionale”. Non vogliono più aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, semmai ambiscono a tornarvi.

Questa evoluzione non è stata presa benissimo dagli elettori, che nel caso dei Cinque stelle sono ormai, ad andar bene, un terzo che nella fase del loro maggiore consenso. L’impressione è che queste persone non vogliano tornare a votare Pd o Forza Italia. Semplicemente, non andranno alle urne, disilluse e private anche dell’ultima speranza che avevano coltivato.Il trasformismo ha da sempre in Italia la virtù di consentire la governabilità. Non quella però di scaldare il cuore delle persone. Per depotenziare il populismo, ci vorrebbe un orizzonte di speranza: che significa crescita economica. Nel 2021, il “rimbalzo” Covid-19 ci ha consentito un tasso di crescita quale non conoscevamo dagli anni Sessanta. Le previsioni per il 2022 sono però costantemente riviste al ribasso, adesso si parla del 2,6% e probabilmente il valore sarà ulteriormente limato. Ciò in un quadro nel quale l’inflazione è ai livelli più alti degli ultimi trent’anni, con conseguenze avvertite dai singoli cittadini nella loro quotidianità: prezzi dei beni alimentari, benzina, energia. Sarebbe sbagliato (e autoconsolatorio) ricondurre l’inflazione alla sola guerra in Ucraina, che pure alimenta l’incertezza.

Le prossime elezioni politiche si terranno in uno scenario tutto fuorché tranquillizzante.Per chi voteranno gli italiani? Non possiamo saperlo. Viste le dinamiche del ciclo politico, è improbabile che faccia la sua comparsa, in pochi mesi, un nuovo partito populista che abbia lo stesso impeto dei Cinque stelle. Improbabile, ma non impossibile.Negli ultimi anni in molti hanno suggerito di leggere il populismo come una risposta alle politiche cosiddette di “austerità”. Non è detto fosse la lettura corretta, e non solo perché in Italia l’austerità non si pratica dai tempi del governo Monti. Il populismo è più probabilmente una forma di insoddisfazione verso la classe politica e dirigente, si accompagna a un senso di impotenza diffuso rispe tto ai destini del proprio Paese, viene non dal fatto che i rubinetti della spesa pubblica siano più o meno aperti ma dall’inaridirsi delle speranze.

Mai come oggi il discorso pubblico in Italia è divaricato: da una parte una classe politica che dice che va tutto bene, che i soldi ci sono, che il Pnrr spalancherà sorti magnifiche e progressive, dall’altra una società che non capisce più in che cosa sperare per il futuro. Se ci saranno meno populisti nel prossimo Parlamento sarà perché manca (temporaneamente) l’offerta, non la domanda.

Direttore dell’Istituto “Bruno Leoni”

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