Q uella volta che organizzò un corso di scrittura giornalistica, a Cagliari, nella sede del sindacato: pure allora le saltarono addosso. Ne aveva piena consapevolezza, sapeva insomma che stava andando a pestare un campo minato ma semplicemente tirò dritta, col sorriso di chi ne sa sempre una in più. E oggi, a distanza di molti anni, possiamo tranquillamente dire che Michela Murgia ha molto aiutato il giornalismo a riflettere, specie sulle donne. Se abbiamo smesso di parlare di delitto passionale tutte le volte che un marito o un fidanzato mollato uccide la compagna lo dobbiamo alla sua idea diventata virale.

S e non ci sembra più normale chiamare le donne col solo nome di battesimo - siano astrofisiche, aspiranti presidenti degli Stati Uniti, campionesse mondiali o premi Nobel - è grazie alle sue costanti osservazioni affidate per lo più ai social. Se abbiamo constatato che sulla stampa italiana la percentuale di donne che accede alla prima pagina è bassissima rispetto a quella degli uomini, è perché ha lanciato su Twitter l’hashtag “tuttimaschi” e per mesi ha cerchiato di rosso le firme sui più importanti quotidiani. Non solo: è stata una delle prime a declinare al femminile le professioni, quindi ha lanciato l’inclusività della schwa, che usava pure nei suoi libri, con meno seguito ma altrettanta convinzione.

Il femminismo è stato forse il tratto principale del suo contributo alla cultura e alla politica. L’intellettuale di Cabras lo rivendicava con quel tono di voce sempre pacato che pure sapeva essere durissimo, a tratti perfino antipatico. Come quando replicò a Corrado Augias, in diretta tv: il conduttore le aveva fatto notare che parlava “sempre di donne, come mai?, è un caso?, una scelta?, cambierà?”. E lei, senza muovere un muscolo, l’espressione di chi ti ha colto in fallo, rispose, puntuta: “Noto che lei parla solo di libri scritti da uomini, è un caso?, una scelta?, cambierà”?

Chi leggeva i suoi libri, la seguiva in tv, alla radio, a teatro, sui social, poteva dire di conoscerla perché era una persona senza sovrastrutture, quel che pensava diceva, e quel che diceva era sempre frutto di conoscenza: condivisibili o meno, le sue tesi non erano mai superficiali, e quasi sempre divisive. D’accordo o no sapeva farsi ascoltare e mai avrebbe detto a un interlocutore “zitto”, come invece le era capitato di sentirsi apostrofare alla radio. In quell’occasione, mettendo l’accento sul retaggio di una cultura patriarcale che in mancanza di argomenti impone il silenzio, aveva sottolineato che qualcuno ancora crede di poter dire a una donna quello che deve e non deve fare.

Del resto, Michela Murgia non ha mai smesso di raccontare la violenza del padre né di spiegare come fosse stata accolta da un’altra famiglia, fill’e anima. E certo nasce da lì il suo mettere se stessa al servizio degli altri, parlarne affinché non accada più, indicare un’altra possibilità a chi non la vede. “Il mondo deve sapere”, il libro che la rivelò al grande pubblico, è stata una denuncia del lavoro nei call center, giovani sfruttati e sottopagati. Quindi ha espresso il suo talento in “Accabadora”, tra leggenda e realtà, o “Ave Mary”, tra femminismo e teologia, fino alla provocazione delle “Istruzioni per diventare fascisti” e all’ultimo “Tre ciotole” non autobiografico ma pedissequo. Trasformare il personale in politico, la sua cifra è sempre stata quella: dire, scrivere, denunciare. Lottare. Con ogni mezzo. Prima i libri, poi la tv, la radio e i giornali, infine i social, addirittura il podcast, sempre avanti anche sul piano della tecnologia dei mezzi di diffusione del pensiero. Che viaggiava veloce e raggiungeva perfino chi nulla sapeva di lei.

Quan t’è riduttivo definirla ora la scrittrice che aveva raccontato la sua malattia. La fase finale è stata l’ennesima coraggiosa battaglia: il cancro come parte della vita, la paura, il dolore fisico e la felicità degli affetti, le scelte e i diritti, incluso quello di essere liberi, sempre, comunque e ovunque. Prima, molto prima, della morte vicina.

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