I l caso dell’anarchico Alfredo Cospito, che sconta in carcere pesanti condanne per gravi reati, ci mette davanti a un tema rilevante: la legittimità costituzionale dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario che prevede un regime particolarmente duro per chi ha commesso reati legati alla mafia e al terrorismo. Dico subito che così com’è formulata la norma è a mio parere incostituzionale, e spiego perché. La finalità della norma è quella di mantenere ordine e sicurezza, o di recidere i legami che esistono tra il detenuto e la criminalità organizzata di cui faceva parte prima dell’ingresso in carcere.

I n parte l’articolo 41 bis soddisfa quest’ultima esigenza (anche se a mio parere andrebbe aggiornato per essere da una parte più efficace e dall’altra più rispondente al diritto di avere rapporti con i propri familiari).

Ma c’è un altro aspetto da considerare: questa norma, direttamente o attraverso la sua pratica applicazione, rende più afflittiva la pena, dunque più difficile la vita della persona cui viene applicata quella misura, senza che esista una connessione tra questa maggiore afflittività, cioè la sofferenza di chi sta in carcere, e l’esigenza di evitare contatti con l’esterno.

Occorre ricordare che il 41 bis non è una sanzione, una pena: prevede alcune limitazioni importanti, al solo scopo di raggiungere gli obiettivi sopra citati. Diventa allora poco comprensibile che non si possano, ad esempio, tenere in cella più di quattro libri (articolo 11.6 della circolare del 2.10.2017), non si possa appendere alle pareti della cella (che vede soltanto il personale dell’amministrazione penitenziaria) più di una foto di un familiare, non si possano avere a disposizione più di 12 matite colorate (art. 11.5). Queste, e tante altre limitazioni, sembrano essere soltanto vessatorie, e quindi in contrasto con la regola stabilita dalla Costituzione, secondo la quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” (articolo 27).

Giurista

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