Giustizia e spettacolo
T rasmissioni televisive dai toni assertivi e coinvolgenti che rispolverano un processo appena concluso, per dire che doveva andare esattamente al contrario, se solo si fosse valutato il ronzio di fondo di una intercettazione, o il pettegolezzo che un brigadiere aveva riferito al collega. O che spingono ossessivamente per fare un processo che la Procura della Repubblica, ritenendo manchino indizi anche minimi (che però la redazione ha trovato ascoltando un tizio con passamontagna e voce artefatta), non vuole avviare per qualche oscuro complotto. Inviati che vanno a intervistare il congiunto di una vittima pensando di saper provocare, prendendolo alla sprovvista, le affermazioni che serviranno a capire se è lui il colpevole dell’omicidio, e ad indirizzare i magistrati verso le soluzioni lampanti che non avrebbero saputo trovare. Inquirenti che - probabilmente solo per non essere scortesi - finiscono per “ringraziare la trasmissione” per le preziose informazioni investigative ricevute.
Quotidianamente assistiamo, insomma, a un nuovo tipo di spettacolarizzazione della giustizia che non si limita a commentare i processi.
T rasmissioni che non silitano ad ospitare sotto i riflettori l’avvocato, il giornalista, l’investigatore in pensione e l’autore di bestseller, ma vogliono interagire col processo, forgiando la verità giudiziale che uscirà dall’aula col proprio apporto televisivo, e con la pretesa che la verità della trasmissione sia “più vera” di quella che possa emergere, o essere già emersa, in aula. Si tratta d’una pretesa di contaminazione attiva del processo, quello vero, con gli strumenti mediatici che questa volta non lo descrivono, ma lo “fanno” per conto degli ascoltatori, con la pretesa che la versione, balorda ma facile, così confezionata sbuchi come in un film horror dallo schermo per girovagare nelle aule di giustizia.
I risultati paradossali arrivano quando i giudici (quelli veri), alla fine del processo d’aula (quello vero), non confermano la narrazione televisiva: perché allora saranno i giudici - a causa dei precetti strani e incomprensibili (che si chiamano diritto) di cui sono prigionieri - ad aver sbagliato e non visto, non letto e non capito quell’indizio così importante per la trasmissione. E i condannati all’ergastolo saranno innocenti vittime d’un pregiudizio del maresciallo che aveva tenuto il primo interrogatorio, o l’assolto sarà un assassino che se l’è scampata per la negligenza degli inquirenti a non scavare nel punto esatto del giardino in cui avrebbero rinvenuto (prima che la pioggia la dissolvesse, naturalmente) quella che la fantasia delle redazioni, con un termine mai sentito nei processi veri, chiama la “prova regina”.
Si innesta, insomma, un clima di costante dissociazione del rapporto, già difficile, tra giustizia e realtà, in cui nessuno svolge serenamente il suo compito, ed i ruoli stessi si confondono, generando un’idea malsana di giudice interprete delle aspettative popolari in cui le sentenze valgono solo se riescono a collimare con gli esiti del processo televisivo.
La vera domanda, però, è se questa confusione di ruoli inneschi il rischio concreto di giudizi errati, ed in particolare della condanna dell’innocente. La spettacolarizzazione del processo, infatti, può consentire, e spesso consente, la formazione di un’opinione pubblica negativa sull’imputato, magari accompagnata da una descrizione empatica o idealizzata della vittima. Corti e tribunali, in testa la Cassazione, rifiutano però il problema, perché ritengono che l’abito mentale e la cultura professionale del magistrato consentano di decidere espellendo mentalmente le breaking news sul caso. Così il problema, però, si sottovaluta, e si ignora che anche i migliori giudici, come ricorda la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, “non operano nel vuoto”, ma imbevuti come gli altri esseri umani nel loro tessuto sociale, in cui rimbombano anche le voci della piazza mediatica, che, quando forti e uniformi, trasformano ombre e supposizioni in fatti. Ad esempio, enfatizzare sistematicamente sui media la disaffettività o freddezza di carattere, o le condizioni di vita instabili, o le numerose relazioni saltuarie, o i gusti sessuali d’un accusat o di omicidio può generare un solido pregiudizio collettivo, e influenzare così la decisione in aula? Il fatto è che il processo non è solo l’accertamento formale sulla rilevanza penale di un fatto, ma anche un giudizio umano sulla capacità dell’imputato di averlo compiuto: e così nel processo l’imputato, dallo studente al politico, all’imprenditore, mette sul tavolo il proprio capitale reputazionale. Se il processo mediatico consisterà nella “liquidazione anticipata” di questo capitale reputazionale, tanto da farlo giungere esaurito in aula, si sarà segnata la via per la condanna dell’innocente.
Professore di diritto penale
e avvocato