F ate attenzione: non è un duello ma una sfida multipla. Se non c’è alcun dubbio che la notizia della settimana sia la guerra epica e feroce tra Maurizio Landini e Matteo Salvini, è molto più complicato - ma anche più sorprendente - provare a capire che partita si sia giocata davvero e chi abbia davvero vinto. I fatti, ormai, li conoscono tutti: Cgil e Uil proclamano lo sciopero generale contro la manovra (e soprattutto contro i tagli alle pensioni). Il super ministro leghista si mette di traverso dicendo: “Devo difendere il diritto degli italiani alla mobilità”.

L andini e Pierpaolo Bombardieri, che ormai è diventato il Kit Carson del leader della Cgil, denunciano: “È in atto un attacco al più importante diritto sindacale”. A questo punto le cose si complicano ulteriormente: perché interviene la commissione di garanzia sui trasporti (che si esprime contro i sindacati), ma si scopre anche che i membri di questo cruciale organismo terzo sono stati tutti appena rinominati dal governo, e che - per giunta - a quel tavolo siedono dei dirigenti che sono stati tutti collaboratori dei ministri di centrodestra: tra questi l’ex capo gabinetto della Meloni al Ministero della gioventù e l’ex collaboratore di Maurizio Sacconi al Ministero del lavoro. Il capitolo successivo - bang bang - equivale ad una sparatoria tra pistoleri davanti al saloon. Salvini attacca il leader della Cgil (omettendo volutamente Bombardieri), personalizzando la sfida, con una accusa dura: “La Cgil sta facendo questa battaglia per garantire il week end lungo al suo capo”. E Landini non si tira certo indietro, scegliendo di personalizzare pure lui: “Ma chi me le lancia queste accuse ridicole? Uno come Salvini che non ha mai lavorato in vita sua?”.

A questo punto Landini e Bombardieri pur denunciando e definendo “squadrista” l’azione della commissione, riducono le ore di astensione dal lavoro a quattro, come suggerito dall’organismo che pure contestano. Rinunciano anche ad esporre i lavoratori, facendo un passo indietro e cancellando gli scioperi “vietati”. La suspense continua, fino alla serata-thrilling in cui Salvini alle 24.00 dell’ultimo giorno utile annuncia la precettazione.

In queste condizioni si arriva allo sciopero di venerdì. Di cui certo non mi interessa la guerra dei numeri: la Cgil e la Uil sottolineano le categorie e i luoghi di lavoro dove hanno sfiorato il 70% o addirittura il 100%. Il ministro dice di avere dei dati che provano come in alcune categorie dei trasporti, le adesioni allo sciopero fossero di poco superiori al 5%. Chi ha ragione su questi dati, visto che entrambi cantano vittoria? Non è importante. Non c’è dubbio che Salvini abbia capitalizzato una posizione legge-e-ordine, così come non c’è dubbio alcuno che siano stati il ministro (e la insultatissima commissione “dei nominati”) a riempire (e scaldare emotivamente) la piazza di Cgil e Uil. E qui arriviamo al vero punto: il duello destra-sinistra che si è celebrato nella realtà non è quello di superficie che tutti hanno visto, non è stato lo scambio di pistolettate fra Maurizio e Matteo. Landini ha ottenuto due cose: diventare il riferimento unico dell’opposizione sociale al governo Meloni. E con la sua scelta “moderata” si è accreditato come leader capace di toccare corde di duttilità un tempo impensabili per un ex capo carismatico della Fiom. Ma lo stesso discorso si potrebbe fare con Salvini: i giornali della sinistra lo hanno definito “autoritario”, ma con la sua tirata intransigente, è riuscito per la prima volta a segnare un “più uno” sulla Meloni: una linea più dura, in un governo già duro. Quindi, finito il duello dei pistoleri, quando i padrini e i cerusici sono andati a controllare le ferite dei rispettivi assistiti, hanno constatato che i colpi a segno non hanno colpito i bersagli apparenti. Il “quadriello”, in realtà non coinvolgeva le persone che hanno sperato, ma i leader fuori scena. Sia Landini che Salvini, hanno lanciato la loro Opa.

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