L a terra misura il tempo in migliaia di anni e la vita di ciascuno di noi occupa meno di un battito di ciglia nella storia del pianeta. Però noi nella nostra vita ci viviamo e siamo portati a ragionare in funzione di essa, degli anni che abbiamo a disposizione, dei fenomeni che possiamo direttamente osservare. È questa la ragione per la quale in questi giorni nel dibattito italiano si mescolano due cose che dovrebbero invece rimanere distinte. Da una parte le temperature elevate in questo mese di luglio si riscontrano in molte aree del Paese.

U n problema al quale si dovrebbe far fronte ricorrendo ai consigli degli esperti che il più delle volte coincidono col buon senso e non: mangiare frutta e verdura, bere molta acqua, cercare di stare al fresco quanto più possibile, coprirsi la testa, eccetera. Dall’altra il riscaldamento globale, che non va parametrato sugli andamenti stagionali né considerato più o meno rilevante sulla base della semplice esperienza individuale. Si tratta di una di quelle questioni nelle quali, ci piaccia o meno, dobbiamo affidarci agli esperti, ai pochi cioè che riescono davvero a leggere i complessi modelli climatologici, mentre starà poi alla politica decidere sulle misure da prendere. Dobbiamo stare attenti. Il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ha fatto un danno notevole al dibattito pubblico e alle stesse istanze del sistema produttivo paragonando il caldo al Covid. Le intenzioni probabilmente erano buone: suggerire che l’esperienza pandemica ci ha lasciato un’attitudine alla flessibilità che consente forme di lavoro più agili che in passato. In una economia basata in larga misura sui servizi come la nostra, non è più inimmaginabile separare lavoratore e luogo di lavoro. Ma pensare davvero che il caldo a luglio sia una emergenza per la quale si può ricorrere al repertorio di provvedimenti usato per la pandemia rivela una predisposizione alla gestione emergenzialistica di qualsiasi cosa che spaventa. Spaventa per le nostre libertà, i nostri diritti, incluso il diritto di lavorare e quello di fare impresa, che sono state le prime vittime dei DPCM pandemici. Quel genere di reazione era giustificato da una situazione estrema e sconosciuta, rispetto alla quale, non avendo rimedi disponibili, ci siamo comportati come ai tempi della peste e abbiamo chiuso la gente in casa. È abbastanza evidente che temperature sopra i 35° nel mese di luglio, in Italia, non rientrano nella medesima categoria dell’imprevisto.

Attenzione a sovrapporre in modo improprio realtà completamente diverse, che seguono tempi e logiche differenti. L’esito potrebbe essere paradossale: una politica ambientale a la carte che alza o abbassa il piede dall’acceleratore a seconda degli andamenti del mese, per cui il clima è un’emergenza a luglio cui danno sollievo i temporali d’agosto. La natura stessa del riscaldamento, che è globale, richiede azioni che vanno un po’ al di là del perimetro dei governi nazionali. È vero che il riscaldamento globale rende più probabili o frequenti fenomeni estremi, come le ondate di caldo eccezionale di questi giorni: ma proprio per questo bisogna ragionare nei termini dell’adattamento, non in quelli dell’emergenza. E serve una politica che sappia fare il suo mestiere. Cioè, come nel Covid in questo caso ma nella fase delle riaperture, che ragiona in termini di costi e benefici. Per intenderci: se in nome della necessità di rallentare il riscaldamento globale, adottiamo politiche industriali che invece con tutta probabilità implicano l’impoverimento effettivo di milioni di persone (perché, per esempio, non possono più utilizzare l’ automobile, dal momento che i veicoli elettrici sono troppo costosi) e magari hanno anche effetti ambientali limitati, forse il gioco non vale la candela. Sono valutazioni complicate, come meglio di altri dovrebbe sapere il mondo dell’impresa. Per questo servirebbe mantenere freddo almeno il sangue.

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