N el 1903, il prefetto di Cagliari Emilio Bedendo, preoccupato per l'ordine e il decoro pubblico e non per lo stato cui era ridotta la popolazione, descriveva gli emigranti sardi che si affollavano al porto come “luridi, macilenti e senza più nulla di umano”.

Dalla data dell'Unità d'Italia, 1861, al 1915, quattordici milioni di italiani - più della metà della popolazione del primo censimento - furono costretti a emigrare (per fame, sia chiaro, risultato dell'imposto tallone piemontese, e non per gusto o perché sognassero una città dell'oro). In un solo anno, il 1913, novecentomila persone lasciarono l'Italia. Durante la Guerra, la più popolosa città italiana era New York.

Contrariamente alla vulgatio che oggi ne viene data in termini di accoglienza buonista, l'emigrazione verso paesi anche strategicamente bisognosi di mano d'opera, come gli Stati Uniti e il Brasile, fu un calvario biblico. Molti emigranti morivano durante la traversata; molti erano respinti anche per una semplice malattia e dovevano pagarsi il viaggio di ritorno (ho un triste riscontro familiare al proposito); l'integrazione passava per decenni di duro e impietoso lavoro ai livelli più umili della società; il razzismo imperava contro gli emigrati.

Negli Stati Uniti si diceva che gli italiani non erano bianchi, “ma nemmeno palesemente negri”, ed erano classificati come “razza inferiore (potenza di Niceforo!) e una stirpe di assassini, anarchici e mafiosi”. La famosa Ellis Island, che ho visitato più volte per le mie ricerche, era un modello di organizzazione ma non certo di pietà. (...)

SEGUE A PAGINA 9
© Riproduzione riservata