M olti miei amici sono indotti spontaneamente a spiegarmi che «essere di sinistra è un sentimento, un atteggiamento del cuore, una filosofia, e niente ha a che vedere con la degenerazione della politica e della finanza». Si potrebbero considerare frasi simili come “excusatio non petita”, ma io, che soffro di carità cristiana e non d'ideologia o di hybris finanziaria, m'interrogo sulla profonda contraddizione cui persone in buona fede sono dolorosamente costrette.

Non mi riferisco, ovviamente, a chi si professa di sinistra per puri intenti affaristici e di carriera oppure per comodo conformismo - con questi non può esserci dialettica - ma a chi avverte il peso del fallimento della sfrangiata politica che ha portato i poveri a essere più poveri e i ricchi ancora più ricchi. Questo è un risultato duro da sopportare, ci credo. Certamente le colpe possono essere, diciamo così, rispedite al mittente, e in questi rilanci noi italiani eccelliamo, essendo l'autocritica pericolosa per la nostra autostima. Tuttavia, con lo squarciarsi di narrazioni guidate, i fatti emergono, testardi, e fanno male. I numeri non mentono e purtroppo sono convergenti: la distanza tra l'élite e il popolo è diventata abissale mentre la classe media è stata stritolata.

Come penitenza, basta cercare su Google “la sinistra ha fallito” per trovare decine di migliaia di diagnosi, fatte da L'Espresso, Repubblica, il Manifesto, ecc., e da Lerner, Monti e Rampini, Prodi, De Masi, Fassina, sino a Ken Loach, in una sarabanda di declinazioni.

D eclinazioni come “la scuola di sinistra ha fallito”, “sulla previdenza la sinistra ha fallito” ecc., che non lasciano scampo all'analisi di chi vuol riflettere con onestà intellettuale.

Polito dice che l'ambizione della sinistra rimane quella di dimostrare, invero nelle piazze, la propria capacità di resistenza alla destra, nonostante rovesci elettorali, divisioni politiche, incertezze programmatiche (e pessimi risultati, aggiungo). Ricolfi ribadisce quanto scritto nei libri, ovvero che l'antipatia della sinistra dipende dal suo razzismo etico, dal malinteso senso di superiorità morale e dal disprezzo dell'avversario politico. «Lo schema è sempre quello: non si pensa agli errori fatti, a correggere una politica sbagliata, ma solo a cambiare il soggetto rivoluzionario. È così che si passa tranquillamente dagli operai ai neri, ai giovani, agli studenti, ai popoli del terzo mondo, per finire con i seguaci di Greta (e oggi le sardine)». E conclude: «Io penso che l'avversario politico vada rispettato. E invece troppo spesso sento circolare ben altri sentimenti: dalla repulsa fisica al disprezzo, dall'intolleranza all''odio verso il non-uomo. Insomma, per me ha ragione la Segre: l'odio va combattuto in tutte le sue forme».

Ma il malessere che noto intorno ha ragioni profonde, a partire da una colpa non risolta, quella di “essere di sinistra ma non antitotalitari”. Questa pesa su qualsiasi ricostruzione storica, e porta a incoerenze difficili da sostenere. Il mitico Pol Pot, giusto per tenerci discosti dai nostri nervi sensibili, che casualmente ha ucciso tre milioni di concittadini su una popolazione di otto, era l'illuminato progressista che qualche viaggiatore ha descritto? E Mao, come inquadrarlo e giudicarlo?

Ma al di là di queste scomode radici («tutti sbagliano», si dice mettendo un coperchio di ghisa sopra la parte di storia che non si vuol mostrare), si deve riconoscere che la grande confusione esistenziale è portata oggi dall'Europa. Come spiega Omar Onnis nel suo interessante scritto “Nazioni, nazioni senza stato, nazionalismi, sovranismi, indipendentismi, democrazia”, «il confitto oggi verte sulla distanza tra le forme e la sostanza, tra le aspettative di libertà, diritti, qualità della vita da una parte e la cruda realtà di diseguaglianza, corruzione, potere oligarchico, autoritarismo, repressione dall'altra».

Ci si aspetterebbe una sinistra schierata con i deboli, non certo con «un apparato di potere in mano ai governi, ai tecnocrati, ai grandi centri d'interesse finanziario, non certo ai popoli». E sarebbe questo il momento di un'alta politica che nasca dallo studio, dal dubbio, e non confonda le conquiste democratiche con «lo status quo di subalternità e dipendenza che ci sta distruggendo», che non difenda una presunta e tutta da dimostrare superiorità antropologica calpestando maldestramente chi soffre povertà e marginalizzazione.

CIRIACO OFFEDDU

MANAGER E SCRITTORE
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