L o scorso 2 febbraio, il Consiglio dei ministri ha approvato in via preliminare il disegno di legge (Ddl) sull’autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione (Ddl Calderoli). Dopo questo primo via libera, per arrivare in Parlamento serve il parere della Conferenza unificata e poi un nuovo passaggio in Consiglio dei ministri. La Conferenza unificata partecipa ai processi decisionali che coinvolgono materie di competenza dello Stato e delle Regioni, al fine di favorire la cooperazione tra l’attività statale e il sistema delle autonomie.

S i dovrebbe trattare della fase finale della riforma costituzionale del 2001, quando per la prima volta si introdusse nel nostro ordinamento il principio dell’autonomia differenziata. Il condizionale è tuttavia d’obbligo, perché definire il 2 febbraio come una giornata storica, come hanno fatto alcuni esponenti della maggioranza, appare oggettivamente esagerato. Peraltro, un’analisi dei contenuti del Ddl, come sostengono Paolo Balduzzi e Andrea Ballabio su lavoce.info, «non fa che confermare il sospetto che siamo ben lungi da una conclusione: non solo del processo, ma neanche del dibattito, perché i nodi ancora irrisolti sono parecchi».

Il Ddl deve ancora approdare in Parlamento; tuttavia, anche se fosse approvato nell’attuale versione del governo, esso non introdurrebbe di fatto alcun procedimento direttamente attuabile. Per contro, appaiono esagerati anche i commenti di alcuni esponenti dell’opposizione che arrivano a definire “demenziale” oppure “eversiva” l’operazione in atto. Le criticità ci sono, ma i toni esagerati, così come la scelta di approvare il Ddl proprio in questo periodo, forse sono più orientati a influenzare le elezioni regionali del 12 e 13 febbraio che non ad arricchire il dibattito sull’autonomia differenziata.

Dunque, come ha sostenuto Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera, «perché gridare oggi al lupo? E perché, da parte del governo, esultare per un disegno di legge che ripropone punti spinosi già sollevati e non risolti dai governi precedenti?». La polarizzazione del confronto può dare visibilità elettorale, ma di certo non contribuisce a realizzare un regionalismo efficiente, che seppur con accenti diversi resta comunque un obiettivo condiviso dai principali partiti. L’Italia non è il primo Paese al mondo a voler introdurre il federalismo fiscale. Anzi, il trasferimento di poteri e competenze dal centro alle regioni ha interessato molte democrazie occidentali.

Il problema di fondo è comunque sempre lo stesso: come conciliare una maggiore autonomia regionale con l’esigenza di evitare disparità dei diritti individuali dei cittadini? Conciliare queste due esigenze non è facile: dalle analisi più accreditate, conclude Ferrera, «emerge che nessun Paese ha trovato la ricetta ottimale». I nodi più insidiosi restano tuttavia la scelta dei servizi minimi da garantire a tutti (i cosiddetti Lep o livelli essenziali delle prestazioni), le compensazioni fra regioni ricche e povere e la scelta dei sistemi di monitoraggio della spesa e dei risultati ottenuti a livello locale. Il Ddl Calderoli ribadisce che l’approvazione dei Lep è una condizione necessaria per concedere l’autonomia, ma serve anche per prendere tempo.

Fa comunque riflettere che nell’unica materia in cui l’autonomia differenziata regionale sia già in vigore, ovvero la sanità, i risultati siano tutt’altro che soddisfacenti. Come hanno documentato Milena Gabanelli e Simona Ravizza sul Corriere della Sera, «in Italia da tempo indefinito la certezza di avere un esame o una visita medica in tempi rapidi ce l’ha solo chi può permettersi di pagar e». Prima della pandemia, secondo il Censis, 19,6 milioni di italiani si sono visti negare almeno una prestazione dei livelli essenziali di assistenza in un anno e, presa visione della lunghezza della lista d’attesa, «hanno proceduto a farla di tasca propria: ogni 100 tentativi di prenotazione, 28 sono finiti nel privato».

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