O gni anno la manovra economica del governo è puntualmente oggetto di un vero e proprio “assalto alla diligenza” da parte dei partiti. È normale che questi ultimi, in democrazia, siano i “terminali” di diversi interessi. A tali interessi essi provano, nello snodo essenziale della definizione del bilancio dello Stato per l’anno a venire, a “stornare” risorse, confidando che essi se ne ricordino alle prossime elezioni.

I governi provano sempre ad arginare questa attività, come sta facendo anche l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni, forse con più determinazione di altri. Quest’anno, due sono le questioni specifiche che consigliano prudenza. La prima è che la legge di bilancio stanzia ingenti risorse a vantaggio delle imprese, per evitare che esse avvertano fino in fondo l’aumento dei costi energetici. Ma queste risorse bastano fino al prossimo marzo. Se la guerra finisse allo sbocciare della primavera, come tutti ci auguriamo, e se a primavera sbocciata l’Occidente e la Russia avessero la lungimiranza di riannodare relazioni pacifiche di scambio, non ci sarebbero problemi. Però uno scenario simile supera le speranze del più tenace degli ottimisti. È improbabile, per usare un eufemismo, che la crisi energetica finirà con la primavera. Il governo Draghi decise di affrontarla a suon di sussidi, non solo per le fasce più deboli della popolazione ma anche per il mondo produttivo. I sussidi è facile darli e difficile toglierli. Per questo è probabile che gli stanziamenti non bastino e che sia necessaria una correzione in corso.

Di qui una prima ragione di prudenza. La seconda riguarda il costo del nostro debito. La banca centrale europea, pur con forse eccessiva prudenza, continua ad alzare i tassi d’interessi. Con un’inflazione attorno al 10%, non c’è alternativa. Si noti che anche al netto dell’aumento dei prezzi dell’energia (che secondo alcuni sarebbero, come dire, “indipendenti” dall’andamento dell’offerta di moneta) l’inflazione è superiore al 5% nell’area dell’euro: più del doppio del target di inflazione della BCE. Inflazione significa erosione del poter di acquisto delle persone, con un effetto più pesante su lavoratori a reddito fisso e pensionati. L’istituto di emissione non può, dunque, interrompere questo processo, che corregge oltre dieci anni di politiche monetarie espansive. Ciò però significa anche che la BCE rallenterà i suoi acquisti di titoli italiani.

L’una cosa e l’altra assieme non possono che portare a un aumento dello spread fra titoli di Stato italiani e tedeschi. Se a comprare non è più la banca centrale ma risparmiatori e investitori privati, costoro non possono accontentarsi di un rendimento molto simile per titoli meno “rischiosi” (come quelli tedeschi e dei Paesi cosiddetti “frugali”) e per titoli più rischiosi (come quelli italiani, greci, spagnoli).

Lo spread italiano però è balzato in avanti in corrispondenza del “no” al MES da parte del ministro Giorgetti. C’è da augurarsi che ci si ripensi, e in fretta. Il MES è una specie di assicurazione a vantaggio degli investitori dei titoli di Stato ed è normale che in sua assenza costoro richiedano un rendimento più elevato.

È importante che il governo non si faccia sviare da questioni di corto respiro, ricordando che gode di una situazione sulla carta ideale. In tempi di turbolenze finanziarie, aiuta avere un governo con forte legittimazione popolare e che goda di una maggioranza compatta e l’Italia ce l’ha. La posizione dell’esecutivo è ulteriormente rafforzata dall’implosione della principale forza d’opposizione (il Pd). Questo fa sì che la prospettiva di un governo di legislatura non sia più solo uno slogan sventolato da Giorgia Meloni, ma una possibilità: al netto di smottamenti causati dalle prossime elezioni europee.

La durata media dei governi in Italia è di poco più di un anno. Ciò ha generato un’abitudine che ha agevolato la proverbiale propensione dei politici al breve periodo: spendere oggi per incassare voti quando si dovrà tornare alle urne. Con cinque anni davanti si può ragionare in modo diverso. La premier dovrebbe ricordare i due guai con cui il Paese si confronta almeno da quando per la prima volta è stata eletta in Parlamento: bassi tassi di crescita e difficoltà di finanza pubblica.

Ad affrontare questi problemi, non ce l’hanno fatta i governi di centrodestra, immobilizzati dalla incertezze e dalle magagne dell’allora premier Berlusconi; non ce l’hanno fatta i governi di centro-sinistra, allineati sulle esigenze del pubblico impiego; ci ha provato il governo Monti, non ci ha nemmeno provato il governo Draghi, troppo preso a distribuire a bimbi bu oni e cattivi la panoplia di doni di Babbo Natale Pnrr. Ora è venuto il momento di prendere il toro per le corna e per una volta non abbiamo la scusa della proverbiale instabilità politica italiana.

Direttore dell’Istituto

“Bruno Leoni”

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