I l movimento “anti-lavoro” guadagna ogni giorno adepti e fasce di persone. L’aspetto più preoccupante del fenomeno è che non si tratta di un semplice rifiuto opportunistico oppure per certi versi ideologico quanto invece dell’espressione di una cultura più generale e stratificata che ha fatto presa sulla nostra civiltà in declino andandosi a radicare e allargare come un cancro.

Le ondate periodiche che vengono statisticamente chiamate “grandi dimissioni” presentano infatti la caratteristica di formarsi e crescere nei periodi in cui l’economia è in forte sviluppo (il ventaglio di richieste si allarga, i salari offerti lievitano, aumentano le opportunità di professionalità diverse), per diminuire poi nei momenti di recessione.

Quello che sta succedendo adesso è invece drammaticamente anticiclico: a fronte di una crisi che diventa via via più difficile da controllare e circoscrivere, la disaffezione dal lavoro, il desiderio non recondito di farla finita con l’impegno e infine l’ansia di evadere da quanto considerato costrizione stanno assumendo carattere di modificazione profonda del sociale. E non credo quale cambiamento in meglio, come alcuni si affannano a prospettare.

N on credo tutto ciò conduca verso presunte riconquiste di libertà e armonia, e dunque verso un nuovo mondo spirituale, quanto invece verso un deserto di accidia tanto pervasiva quanto insensata. Lasciare il lavoro per fare che? Dedicarsi alla meditazione trascendentale, ritornare alla dimensione dell’innocenza e dei videogiochi oppure alla primitività della natura (come auspica il velista che percorre il mondo con un trimarano sponsorizzato da una nota casa automobilistica)? Oppure semplicemente per abbandonarsi al gusto torpido dell’inazione e al pensiero minimo, al disimpegno esistenziale?

Da quando a inizio 900 Max Weber scrive “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, il saggio che tra profonde riflessioni definisce per la prima volta il “valore-lavoro” (concetto stravolgente in un mondo che ancora considerava le classi lavoratrici “non nobili” – i nobili non lavoravano, per definizione, pochi altri seguivano un proprio “cursus honorum”), da allora il valore del lavoro ha avuto un riconoscimento crescente e trasversale, non limitato a un portato calvinista-capitalista, ma esteso universalmente, dalle encicliche papali Laborem Exercens a Mao.

Cosa succede adesso nel nostro Occidente? La rivoluzione tecnologica ha favorito e sino a un certo punto nascosto due fenomeni devastanti: il crollo del tempio delle istituzioni; l’evaporazione dei valori. Combattere ideologicamente la famiglia, la patria, le imprese, il merito, forse per un malinteso senso di eguaglianza, apertura e inclusione o forse solamente per premiare gli amici degli amici, non è stato senza conseguenze: si sono sgretolati i pilastri che reggevano la società in cui siamo cresciuti ed è crollato il senso dello Stato, della stessa Chiesa come anche dei sindacati, delle associazioni, della partecipazione pubblica. Si è persa la fiducia, il riferimento, l’ancoraggio. A chi credere, ad esempio, quando si parla di giovani, se le cifre di dispersione scolastica, di disoccupazione, d’ignoranza e di rifiuto sociale esplodono come fossimo un quarto mondo?

Contemporaneamente, il concetto di valore si è rivolto a contenuti vieppiù eterei e futili (l’esposizione mediatica, il numero di follower, le vacanze, l’apericena) sino a far scomparire il valore intrinseco del lavoro. Questo diventa anzi un non-valore come l’avere figli e responsabilità, far crescere una famiglia o un’impresa. Persino l’avere contatti sociali, sentimentali o sessuali è in discussione: i rapporti interpersonali sono una fatica deludente, perché insistere? Il Metaverso di Zuckerberg non è forse il sintomo calzante, definitivo, di questa fuga di massa?

Purtroppo non ci rendiamo conto che la cultura anti-lavoro apparecchierà l’ultima scena della scomparsa delle attività che caratterizzano la “condizione umana” sul versante dell’opera, dell’azione. E se i vincoli esterni non ci consentiranno di vivere come un’élite di nobili sfaccendati e viziosi, marchesi del grillo in paesi deserti, di cosa camperemo aspettando che la nostra civiltà arrivi al capolinea per spopolamento, surriscaldame nto e insieme stanchezza? Di “attività inumane”?

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