L eggo spesso “The Atlantic” che, come comunica il nome, rappresenta il pensiero americano d'antan, corretto da quanto i venti occidentali trasportano oggi, dal liberalismo più illiberale ai trendic topic elevati a plinti culturali. Michael Schuman, uno scrittore generalmente non banale, scrive che il mondo, dopo l’invasione russa dell'Ucraina, si sta dividendo in due poli, uno centrato su Washington, l’altro su Pechino. Si strugge che la globalizzazione non abbia sortito i suoi effetti, primo tra tutti quello di trascinare la Cina nel sistema globale delle democrazie.

E ciò per colpa delle accresciute ambizioni strategiche ed economiche di quest’ultima e della sua aggressività mirata a incatenare il mondo. Il gigante comunista – scrive Schuman – vede il potere degli Usa come un vincolo alla sua autosufficienza (vorrebbe addirittura produrre microchip e jumbo) e alla sua strategia di allargamento verso i Paesi emergenti utilizzando la Via della Seta, le tecnologie Huawei, il suo internet e il proprio Swift per i pagamenti. Seppur alcuni legami tra i due poli non possano essere cancellati (cita la Foxconn, fornitrice della Apple, e l’estensione asiatica della catena Starbucks), la minaccia degli autocrati, riuniti in una coazione anti-occidentale, sta rinvigorendo proprio l’alleanza democratica, contribuendo dunque alla divisione del mondo. La spinta appare ancora confusa (il Vietnam, temendo la Cina, propende per gli Usa e il Pakistan viceversa per la Cina), ma solo cambiamenti dei governi e del leader non occidentali potranno bloccare la strutturazione di questo nuovo mondo bipolare, ogni sfera operante con un proprio sistema politico, sociale ed economico e minacciante l’altra con missili nucleari.

Molti i punti di interesse della trattazione: il primo riguarda proprio Schuman che, messo alle strette, non riesce a non essere figlio del suo tempo e della sua estrazione. Non si pretende che un esperto americano di geopolitica diventi un Michel de Montaigne elevandosi al di sopra delle umane e quotidiane piccolezze, o abbia la visione storica e di giudizio di Benedetto Croce, ma dopo tanto discutere ci si aspetterebbe qualcosa di diverso dal solito duello a mezzogiorno, il buono contro il cattivo l’un contro l'altro armati. Purtroppo Schuman sembra rimasto al 1992, a “La fine della storia” di Fukuyama e al suo governo transazionale che avrebbe dovuto guidare il mondo, senza invece interiorizzarne l’ultimo libro, “Identità, la ricerca della dignità e i nuovi populismi”, nel quale si cancellano decenni di pensiero unico socio-economico e si abiura sia la globalizzazione come panacea universale, sia il neoliberismo.

In un mondo estremamente complicato e frantumato, percorso da individualismi ogni giorno più netti, da forze centrifughe esplosive, il volere persistere a scorgere un’unica verità (la “final form” di Fukuyama) e un unico modo per raggiungerla, e giudicare gli altri da una prospettiva monoideologica, appare ingenuo prima che antistorico. Così come l’utopia di esportare la democrazia (forzando dall’esterno un cambio di regime, leggasi la denuncia del ministro pakistano Imran Khan) senza comprendere che esistono diversi gradi di democrazia, molteplici livelli di non-democrazia e di libertà, fasi storiche imprescindibili di crescita culturale, politica e sociale, e aspirazioni molto variegate di popolazioni differenti. Tutto questo denota la superficialità del pensiero unico “atlantico”: i risultati delle guerre dal Vietnam all'Afganistan lo provano.

Sette miliardi di persone su otto non appartengono all’Occidente e due terzi della popolazione mondiale vive in Paesi neutrali o che appoggiano la Russia (come da ultimo rapporto dell'Economist Intelligence Unit): è possibile giudicare il futuro e operare ancora in modo manicheo, trincerandosi dietro una presunta superiorità antropologica, anteponendo la democrazia all’umanità? Le relazioni tra i Paesi sempre più rispettano concetti di convenienza, non di principi o esclusività (vedasi India, Giappone, Singapore, ecc.), e sono guidate, si pensi ai Paesi terzi, dagli aiuti pratici ricevuti.

Il consenso si conquista non sventolando un mito appassito ma con una vicinanza non ipocrita, con investimenti e con sensibilità (culturale) che riconosca storia, situazioni e differenze che oggi vengono taciute a favore di una monoliticità apparente, in primis quella degli Stati Uniti. Uno, due o più poli?

© Riproduzione riservata