"C'era una donna giù in fondo, il cui corpo è rimasto incastrato a metà fuori da un oblò, mentre teneva in braccio suo figlio... ci ha spezzato il cuore".

È il racconto di Tom Zreika, uno dei soccorritori intervenuti nella zona di mare al largo delle coste del Libano, dove il 24 aprile scorso è colata a picco un’imbarcazione con a bordo decine di migranti.

Le operazioni di recupero, cominciate nei giorni scorsi sotto il formale coordinamento della Marina militare libanese, sono state organizzate con mesi di ritardo da una iniziativa privata, con una raccolta di fondi gestita in parte da una rete di familiari delle vittime, residenti soprattutto in Australia.

Dopo alcuni tentativi, durante i quali i resti di alcune persone sono stati portati in superficie disfacendosi sotto gli occhi dei soccorritori, la marina libanese ha informato l'organizzazione non governativa australiana AusRelief dell'impossibilità di continuare per non meglio precisati "rischi di sicurezza".

I circa 30 corpi non recuperati, tra cui quello della giovane donna e di suo figlio, sono quindi destinati a rimanere in fondo al mare. 

(Unioneonline/l.f.)

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