Era il 4 gennaio 1991, intorno alle 22 circa, quando nel quartiere del Pilastro di Bologna andò in scena una delle più terribili tragedie della storia recente del Paese: una pattuglia dell'Arma dei Carabinieri fu trucidata dalle pallottole del gruppo criminale poi noto come “Banda della Uno Bianca”.

Ora, in una lettera che nasce in occasione del 31esimo anniversario dell’eccidio, i familiari dei militari uccisi chiedono con ancora maggiore forza una riapertura delle indagini. 

"Nel gennaio dello scorso anno – spiegano – la Procura di Bologna ha formato un fascicolo conoscitivo per riaprire le indagini sulla Banda della Uno Bianca, affidandole alla Digos della Questura di Bologna e dalle quali attendiamo l'esito. Una decisione presa dopo un'informativa dei carabinieri tesa a chiarire alcuni aspetti di un'intercettazione telefonica che coinvolse la famiglia della super testimone Simonetta Bersani, un indagine che ci auguriamo porti dei risultati".

"Siamo sempre di più i familiari delle vittime a chiedere la verità attraverso la riapertura completa delle indagini – prosegue ancora la lettera – non solo per la strage del Pilastro. Un contributo in questa direzione potrebbe arrivare anche dalla digitalizzazione degli atti sulla Banda della Uno Bianca, chiesta dall'Associazione dei familiari delle Vittime ed avviata lo scorso mese di ottobre", aggiungono i parenti di Otello Stefanini, Andrea Moneta e Mauro Mitilini.

L'eccidio del Pilastro, secondo i familiari di Stefanini, Mitilini e Moneta, "richiamò alla memoria stragi del passato, una delle azioni più cruente della cosiddetta Banda della Uno bianca e sulla quale aleggiano ancora tante ombre".

Tra i punti sottolineati e da approfondire c'è il "perché i carabinieri si fossero spostati in via Casini, dove furono assassinati, mentre avrebbero dovuto stazionare presso le ex scuole Romagnoli, così come disposto da una dettagliata ordinanza del Questore di Bologna che prescriveva una 'vigilanza fissa'". "Altro mistero" fu rappresentato "dalla sparizione del foglio di servizio della pattuglia ove, tra l'altro, erano riportate le modalità del servizio da svolgere". Poi, "risulta ancora ignota l'identità di quel misterioso quarto uomo che diversi testimoni videro prelevare i killer, dopo la strage, a bordo di Un'Alfa 33". Dunque "restano dubbi sia sul movente che sulle modalità dell'assassinio, ad iniziare dall'ingaggio sino al compimento dell'eccidio: i killer dopo aver gravemente ferito i tre carabinieri, non si allontanarono ma portarono a compimento la strage con un impressionante pioggia di fuoco".

Inoltre "avevano con sé del kerosene con il quale, subito dopo, incendiarono l'auto per cancellare le tracce. Evidentemente il gennaio 1991 dovevano morire tre giovani carabinieri". 

I FATTI – Il 4 gennaio 1991, attorno alle 22 circa, la banda si trovava al Pilastro per caso, essendo diretta a San Lazzaro di Savena in cerca di un'auto da rubare. All'altezza delle Torri, in via Casini, l'auto della banda fu sorpassata dalla pattuglia dei carabinieri e la manovra fu interpretata dai criminali come un tentativo di registrare i numeri di targa. Dopo avere affiancato i carabinieri, Roberto Savi esplose alcuni proiettili, sul lato del conducente Otello Stefanini. Nonostante le gravi ferite riportate, il militare cercò di fuggire, ma andò a sbattere contro dei cassonetti della spazzatura. In breve tempo l'auto dei Carabinieri fu investita da una pioggia di proiettili. Gli altri due militari, Andrea Moneta e Mauro Mitilini, riuscirono a uscire dall'abitacolo e a rispondere al fuoco, ferendo tra l'altro Roberto Savi. La potenza delle armi utilizzate dalla banda però non lasciava speranze ed entrambi i militari caddero feriti sull'asfalto. I tre furono poi finiti con un colpo alla nuca.

(Unioneonline/v.l.)

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