«Insieme con me c'è mia moglie, la mia famiglia, tutti siamo pieni di dolore. Vorrei pensare al mio orto in Sardegna e invece...». Invece deve pensare a sua figlia, rinchiusa in carcere in Ungheria da 13 mesi, ha smesso di fare l’ingegnere e si è trovato a fare l’attivista per i diritti umani 24 ore su 24. Lui è Roberto Salis, cagliaritano, padre di Ilaria, la trentanovenne militante antifascista è accusata di lesioni aggravate ai danni di due nazisti. Un regime carcerario, il suo, che ha fatto discutere per le condizioni in cui da mesi è costretta a vivere. Le sue immagini con mani e piedi incatenati hanno fatto il giro del mondo.

Ora per l'insegnante reclusa in un Paese che non va tanto per il sottile con pene e diritti dei detenuti è arrivata la candidatura alle Europee, con Alleanza Verdi e Sinistra. Ma il padre non vuole parlare di politica.  Racconta di lei: «Le sue condizioni carcerarie sono un po' migliorate»,  dice Roberto Salis  nel corso di un incontro a Napoli, «Ilaria sta abbastanza bene, è una donna molto forte, ha avuto un periodo molto duro, soprattutto i primi 35 giorni di detenzione sono stati difficili. Noi non avevamo contezza di quello che stava passando e questo per me è stato un grave cruccio. Adesso sta meglio. Con l'ultimo pacco consegnato dall'ambasciata finalmente è riuscita a ricevere un phon e dopo 14 mesi è riuscita ad asciugarsi i capelli con uno strumento evoluto».

Salis racconta della candidatura di Ilaria «un processo difficile, visto che con lei riesco a parlare solo dieci minuti al giorno». Parla del presidente Mattarella, della sua «inattesa disponibilità» e di come in primis Ilaria (per la quale è come un «nonno affettuoso») abbia voluto fargli sapere della sua candidatura, «per non creare problemi e imbarazzi».

In tanti, ammette Roberto Salis, gli hanno «sbattuto la porta in faccia» e non ci sta che l'Italia non sia «in grado di far rispettare anche in altri Paesi la Costituzione. Noi abbiamo l'articolo 3  che dice che tutti i cittadini devono avere lo stesso trattamento davanti alla legge, non si dice in quale Paese. Chi ha scritto la Costituzione era un pochino più saggio della media politica che abbiamo attualmente», sbotta.

E poi: «Sono convinto che non siamo noi a dover lavorare per le istituzioni, sono le istituzioni che devono lavorare per noi, perché siamo cittadini e non siamo sudditi. Nel momento in cui c'è una cittadina italiana chiusa in cella, che non può parlare con i genitori, che parla solo con gli avvocati ungheresi, se la famiglia non può intervenire ci vuole un'azione importante delle istituzioni italiane - ribadisce -. In quel caso doveva essere l'Ambasciata a non stare lì passivamente a guardare, ma doveva segnalare».

Gli viene chiesto come sia cambiata la sua vita. Roberto Salis resta per un attimo in silenzio. Poi, commosso, dice: «Insieme con me c'è mia moglie, la mia famiglia, tutti siamo pieni di dolore. Vorrei pensare al mio orto in Sardegna e invece...». E guai a chiedergli, invece, di cosa ne pensa delle risoluzioni che l'Italia non rispetta: «Io non faccio politica, io faccio e voglio fare solo il papà». 

(Unioneonline)

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