Le banchine sono deserte. Anna Mur, un traghetto vecchio come il cucco, consunto da quarant’anni di mari, prima inglesi e poi sardi, si staglia perpendicolare sulla darsena di Portovesme. Profondo Sulcis, quello industriale. Qui il sole non batte, piccona. La benna aerea della gru piazzata a ridosso del traghetto per Carloforte, non si ferma un attimo. Quando si immerge a pescare polvere nera nella stiva della “Seamelody”, bandiera maltese, si capisce la stazza della carboniera attraccata a due passi dai passeggeri che fanno spola con l’Isola di San Pietro.

Rosse & nere

In questo porto, sempre più dimesso, le strade si dividono, a sud sono rosse, a nord nere. Se ci passi da una vita nemmeno te ne accorgi più, le polveri adagiate sul tragitto dal porto alla Centrale Enel ti sembrano semplicemente asfalto arso dalla morsa del caldo d’estate. In realtà, invece, se segui la scia impolverata di carbone ti accorgi che non hai bisogno di segnaletica per raggiungere l’ingresso della “Grazia Deledda”, la centrale che l’Enel, da qui al 2025, deve chiudere per sempre, un po’ per libera scelta e un po’ per ordini superiori. La torre da trecento metri che si inerpica nel cielo è l’edificio più alto della Sardegna, un camino costruito a ridosso delle stelle per far sfiatare ad alta quota una delle due ultime centrali termoelettriche dell’Isola. A sud le strade, invece, sono rosse, quasi terra battuta, come quella del Roland Garros, con la differenza che qui non si gioca a tennis. Quella polvere rossastra si è incuneata da decenni negli interstizi del paesaggio, da quella distesa di fanghi rossi che sovrasta l’area portuale, sino al reticolato stradale interno ed esterno a quella che fu l’Eurallumina, la fabbrica della russa Rusal vocata sin dalla nascita a produrre allumina, figlia della bauxite, la materia prima per la produzione di alluminio. Fabbrica rigorosamente chiusa da non meno di 14 anni, in attesa di energia e soluzioni ambientali capaci di interrompere quella morsa inquinante che ha devastato il territorio.

L’ultima promessa

La nave del gas qui era attesa anche e soprattutto per tentare di salvare quella fabbrica. Inutile girarci intorno, la soluzione navale era l’ultima delle tante promesse campate per aria, con l’unico obiettivo di non far riaprire mai le industrie energivore di questo territorio. Del resto Enel, Terna, Governo e signori del vento da tempo avevano dismesso l’interesse a soddisfare le esigenze elettriche delle produzioni del Sulcis. Hanno cambiato versioni e soluzioni ogni qualvolta si stava arrivando a definirne una. Il “carico” elettrico industriale avrebbe finito per scompaginare i piani per trasformare l’Isola in una colonia energetica d’Italia. L’unica soluzione, come si legge nell’ultima intesa tra Terna ed Enel, è quella di abbattere radicalmente i consumi elettrici.

Al risparmio

In Sardegna, secondo i piani romani, bisogna consumare sempre meno energia industriale, proprio per consentire, senza perdite di tempo, lo spegnimento delle centrali di Portovesme e di Porto Torres. Il piano doveva essere indolore, magari da alleviare con una nave gasiera riadattata per l’occasione a Unità galleggiante per la rigassificazione. Peccato, però, che non tutto è filato liscio. Il passo è breve, dallo scandalo dell’escavo incompiuto ai fondali off-limits per la Golar Arctic, la nave comprata dalla Snam per piazzarla nella banchina est del porto del Sulcis. Il piano del gas, quello decretato unilateralmente dal governo Draghi, è destinato a saltare per aria. Non per ricorsi o contrapposizioni, ma per fattori dirimenti e innegabili. Continuare ad ignorare la scansione temporale oggettiva e per “tabulas” significa perseguire una logica dilatoria tutta protesa ad ingannare lavoratori e le perenni attese di un’intera Isola. Un piano, quello del Governo, che sta mostrando non solo i limiti della palese discriminazione verso la Sardegna e i sardi, dalle tariffe alle infrastrutture energetiche negate, ma anche per l’impossibilità tecnica di realizzare quel rigassificatore galleggiante nello specchio acqueo di Portovesme.

Elevata tossicità

Non c’è, infatti, solo il tema dei fondali troppo alti per far accedere la nave acquistata dalla Snam con un salasso da 269 milioni di euro. In ballo c’è un motivo pesante come un macigno, tenuto nascosto e sottotraccia: l’inquinamento ambientale del fondale racchiuso tra la banchina est e Punta Tabarchina. I dati in nostro possesso raccontano di un disastro scandito da un carico di veleni sommerso capace di far rabbrividire anche il più oltranzista sostenitore del “tutto bello e in ordine”. In fondo al mare, davanti a quella banchina collaudata nel 2005, ma mai utilizzata, c’è un vero e proprio giacimento di materiali tossici e nocivi, di cui una buona parte appartenenti alla categoria di «sedimenti ad elevata tossicità».

Piombo & zinco

Si tratta di sostanze direttamente connesse alla spregiudicata gestione ambientale del territorio, con palesi sversamenti lenti e continuativi di materiali che hanno finito per avvelenare inesorabilmente la darsena portuale. Nel primo metro di profondità dei fondali da sottoporre ad escavo si sono registrati quantitativi di concentrazioni di zinco di 3.500 mg per ogni chilogrammo di materiale, quantitativi decisamente pericolosi rispetto alle “concentrazioni soglia di contaminazione” ammesse di 1.500 mg/kg. Vanno decisamente peggio le analisi di laboratorio che hanno fatto emergere sul fondo marino concentrazioni elevate di pericolosissime sostanze tossiche, a partire dal piombo, uno dei metalli pesanti più insidiosi per la salute umana. In questo caso, dinanzi ad una soglia ammessa di 1000 milligrammi per chilogrammo, si sono riscontrati valori di piombo pari a 6.700 mg al Kg.

Rischi immediati

Sostanze, piombo e zinco, catalogate nella tipologia delle più pericolose tra le ecotossiche: l’HP10 «tossica per la riproduzione» e HP14 «rifiuto che presenta o può presentare rischi immediati o differiti per uno o più comparti ambientali». Dunque, una vera e propria bomba ecologica pronta ad esplodere in caso di movimentazione del fondale senza le necessarie precauzioni che rendono, comunque, l’intervento di bonifica delicato come un’operazione chirurgica. Una partita tenuta sempre sottotraccia proprio per la gravità della situazione, con quantità di materiali sempre più incalcolabili e costi destinati a salire ad ogni nuova perizia. A rendere ancora tutto più complicato è il cambio repentino delle disposizioni in materia di bonifiche ambientali. Se nella prima base di calcolo utilizzata per progettare l’escavo di quella porzione del porto, nel 2015, sono stati quantificati 45.563 metri cubi di sedimenti ad elevata tossicità e 246.703 a media tossicità, nella seconda stesura, appena un anno dopo, nel 2016, i quantitativi si sono addirittura ridotti a 36.382 metri cubi per elevata tossicità e 109.241 per media tossicità.

L’elastico della tossicità

Un dettaglio: i quantitativi di sedimenti a tossicità nulla o trascurabile sono passati da 231.845 a 378.486 metri cubi. Un repentino cambio di classificazione e di quantitativi che sino ad oggi ha letteralmente paralizzato ogni tentativo di avviare quel processo di bonifica che prevede tempistiche infinitamente lunghe considerato che quei detriti da prelevare dai fondali devono essere “estratti” a compartimenti sigillati sott’acqua, per evitare contaminazioni ulteriori del sito con ampliamento dello spazio di inquinamento. Una parte consistente della parte superiore del fondale, quella più inquinata, dovrà, poi, essere sottoposta a stoccaggio in banchina con trattamenti prescritti che vanno dal “lavaggio” delle acque di drenaggio, sino al “soil washing”, il lavaggio delle terre prelevate dal fondale. Il tutto, poi, da conferire in discarica.

Il buco di pietra

Ma quale discarica? Dove? E, soprattutto, ne esiste una tale da non dover portare a spasso quegli agenti inquinanti per tutta la Sardegna? I quantitativi sono rilevantissimi. La somma dei materiali di escavo e dragaggio per il momento è ferma a mezzo milione di metri cubi, una montagna di rifiuti da racchiudere in un sito “sicuro”. La partita è anche economica: l’impresa che si era aggiudicata l’ultimo appalto di escavo, nel 2016, aveva individuato un sito relativamente vicino al porto. A monte della discarica di Sa Piramide, a sua volta a ridosso degli stabilimenti industriali di Portovesme. Non a caso la cava di pietra abbandonata e dimenticata da tutti, individuata per l’operazione di “interramento” di quei rifiuti da fondale marino, si chiama “Cava Sa Piramide”. È passato così tanto tempo dalla dismissione di quel “buco” di pietra gigante che i signori del vento sono riusciti persino a piazzarci dentro imponenti pale eoliche. Peccato che in sette anni mai nessuno ha autorizzato l’uso di quel sito. Per adesso i veleni restano in fondo al mare. La Golar Arctic, la gasiera destinata a Portovesme, è sempre in rada, in Malesia. Ci resterà a lungo. Sulla rotta del Sulcis gli ostacoli diventano imponenti e insuperabili. Carte e documenti ancora tutti da scoprire non lasciano scampo.

(2.continua)

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