Roberto Zanda si racconta per un'ora e mezza in una stanza della piscina comunale di Cagliari. Lavora lì, lui. Indossa una canottiera grigia e un pantaloncino blu. Divisa classica per un allenatore di nuoto “condannato” all'afa che sa di cloro. Zanda è l'ironman che ha attraversato i deserti di cinque continenti e poi perso mani e piedi nel 2018, alla Yukon Artic Ultra, la maratona in solitaria sulle nevi del Canada. Un paradiso-inferno da meno 60 gradi. «Congelamento degli arti», fu il bollettino medico. Da lì le quattro amputazioni, dopo che i tessuti andati in cancrena vennero letteralmente mummificati per essere tagliati. Passò pure dalla via Crucis del rischio setticemia. 

Basterebbe questo per restare incollati alla sedia e ascoltarlo. Invece, proprio quando Zanda scherza e dice che il suo soprannome non è più «“Massiccione” ma “diversamente Massiccio”», ri-affiora il passato. Prepotente. Le braccia piegate e il lavoro del chirurgo involontariamente esibito. «Dentro di me – sottolinea - c'è sempre il bambino che scappa dal collegio di Oristano e vuole fare 100 chilometri a piedi per tornare da mamma a Cagliari». Aveva sette anni. Quella famiglia perduta troppo presto resta un pensiero che bussa di continuo alla porta della quotidianità. Tanto da non far capire più quale sia il dolore peggiore che Zanda si porta dietro. E dentro.

A che numero di vita è?

«Alla seconda, cominciata il 6 febbraio del 2018. Ormai il mio compleanno non lo festeggio più il 30 agosto ma quel giorno. È la mia rinascita. Dopo diciassette ore nelle foreste innevate del Canada, finito fuori dal campo di gara, con nessuno che mi cercava più, venni ritrovato. Io davo per scontato che sarei morto».

La maratona quand'era iniziata?

«Cinque giorni prima, ma ci fu una pausa di 24 ore, giusto la notte prima dell'incidente, perché il termometro era sceso sotto i 50 gradi. Ai nastri di partenza eravamo una trentina. Io ero il pivello delle nevi, uno dei due italiani, l'unico che non aveva avuto esperienze col freddo polare».

Ogni tappa di quanti chilometri era?

«Di trenta e dovevamo trainare una slitta di 60-70 chili».

L'incidente come avvenne?

«Quella notte, tra il 5 e il 6 febbraio, persi l'ultimo punto di segnalazione. Provai più volte a ripercorrere un tratto ma mi ritrovai capovolto sotto un metro di neve. Con movimenti veloci, cercai di sollevarmi ma la slitta mi ancorava a terra. Allora mi tolsi le muffole per sganciarmi e subito sentii un bruciore».

Congelamento immediato?

«Sì. Presi la torcia e vidi che le mani erano bianche, a parte il palmo. Provai a sgrollarle, cioè a scuoterle verso il basso, ma non cambiarono colore».

Ne parla anche nel suo libro "La vita oltre", edito da Baldini+Castoldi: dal controllo del suo Gps nessuno si accorse che era finito fuori dal tracciato. Perché?

«Non so. Forse dormivano. Fatto sta che ero lì, solo. Dovevo prendere una decisione: scegliere la direzione dove andare. La mia vita divenne un bivio, letteralmente. Girai a destra, i miei piedi mi portarono lì».

Lì dove?

«Dove passò una slitta. Successe mezz'ora dopo aver fatto un'invocazione. Implorando il cielo, dissi: “Prendimi i piedi e le mani, ma lasciami vivere”».

Lei intanto in che condizioni era?

«Avevo dovuto togliere pure le scarpe perché era entrata neve. Stavo come può stare una persona a meno cinquanta gradi da diciassette ore. Sono vivo per miracolo. Avevo anche già deciso dove morire. Scelsi un albero in particolare. Mi dava la sensazione di aver trovato un posto caldo, sicuro. Dopo l'iniziale disperazione, mi ero rasserenato».

Ha denunciato l'organizzazione della Yukon?

«No. Fare causa a una società canadese mi sarebbe costato troppo e ci sarebbero voluti parecchi anni. Avrei perso la serenità. Io coi soldi non sono mai stato ambizioso, ho sempre puntato su altri traguardi».

Tipo?

«Comprarmi la casa, visto che da bambino, prima di entrare in collegio, vivevo con la mia famiglia in cinquanta metri quadrati, in via Podgora a Cagliari. Eravamo nove figli. In una stanza di tre metri per quattro, dormivano in sette, sui letti a castello. Io ho sempre desiderato una vita normale, volevo creare una famiglia».

L'abbraccio con lo sport com'è arrivato?

«Lo spirito della competizione non mi è mai mancato. Tanto che verso i 40 anni, alla fine degli anni Novanta, mi sono avvicinato al triathlon e ho fondato la società Survival. Intanto avevo finito di pagare in anticipo il mutuo della mia casa a Elmas. In quegli anni mollai anche un lavoro da dipendente alla 3A di Arborea. Non volevo avere padroni, desideravo essere libero. Decisiva fu la morte di mia madre».

Che anno era?

«Il 1997. Lei giocava molto al Lotto: sognava di fare qualche vincita per dare i soldi a noi figli».

Come si chiamava?

«Piera Cardia. Aveva vinto la Corrida di Videolina con la canzone “Romagna mia”. Di recente mi è capitato di rivedere la puntata. Nella sua povertà era felice. Io invece l'eterno insoddisfatto».

Che altri lavori ha fatto?

«Sono stato paracadutista riservista alla Folgore. Con loro ho girato il mondo: Centro-America, Russia, Israele. Anche in quel tempo ero sempre alla ricerca di qualcosa di particolare, di uno sport che mi appassionasse del tutto. Solo facendo l'ironman ho trovato la mia dimensione: finalmente mi dedicavo a qualcosa che per molti era impossibile. Questo mi dava la carica. E più mi stancavo, più mi sentivo bene. Anche in Canada: non posso dimenticare l'aurora boreale nel pieno della gara. Un balletto di colori che sembrava preparato per me. Lo spettacolo della natura alla mia sinistra. Il buio e il freddo come unici compagni di viaggio e io in prima fila, seduto sulla slitta».

La Yuko Artic Ultra è la maratona più dura del mondo. Nella sua edizione si erano ritirati tutti.

«Provavo invidia quando gli altri atleti lasciavano, uno dopo l'altro. Ma al tempo stesso salivo in classifica e questo mi dava energia. Non mi sono mai pentito di non essermi arreso. A volte mi chiedono se rifarei tutto. Io rispondo “sì”, sempre. Non si può desiderare di tornare indietro solo perché una cosa è andata male».

Cosa ha scoperto con questa seconda vita?

«Ho scoperto un secondo Roberto Zanda: non quello tosto, massiccio e fuori di testa, ma un uomo riflessivo, la cui forza non è mai cambiata. Continuo a fare il 90 per cento delle cose che facevo prima, sebbene la fatica sia maggiore, per ovvie ragioni fisiche. Ricordo gli inizi, appena misi le protesi alle gambe: per venire qui in piscina mi svegliavo alle 4 e prendevo il treno da Elmas. Rischiavo continuamente di cadere. Gli amici mi dicevano: “Ma chi te lo fa fare?”. Ma io sentivo che dovevo rientrare subito nel mio mondo, non potevo ritirarmi in casa. Adesso ho anche imparato a pulire le cozze. Quando ho un ostacolo da superare, mi fermo e rifletto su quale sia la soluzione migliore. Continuo anche a fare il mercatino della domenica, in piazza Giovanni a Cagliari, dove vendo il mio libro e abiti militari».

È felice?

«La felicità è fatta di momenti. Posso dire di essere sereno, questo sì. Mi sono lasciato alle spalle la paura di vedermi allo specchio. Quando tornai a casa dopo le amputazioni, fu durissima confrontarmi con il nuovo Roberto. Non ero più quel fisicaccio a cui avevo dedicato la vita. Fortunatamente, in questa mano sinistra i medici di Torino mi hanno fatto questo innesto: ho come una chela che mi consente una presa. È  come avere due dita. Dieci, forse, sono troppe: ne bastano molte di meno. Quando non abbiamo problemi fisici, diamo per scontate troppe cose. Non ci rendiamo conto che le vere e uniche barriere sono quelle mentali. Il corpo è in cima alla piramide della vita e dobbiamo imparare a trattarlo bene. Diversamente quella macchina prima o poi si blocca».

Oggi ha paura di morire?

«No. Io le difficoltà da superare le ho sempre avute, anche nella prima vita. E sempre mi sono portato dietro il buco interiore del bambino mandato in collegio. Un buco che sono riuscito a coprire solo nella solitudine dei deserti e quando mi sono sposato a 55 anni. Nella prima vita giravo a mille, adesso ho sviluppato maggiore sensibilità. Bisogna imparare ad adattarsi a qualunque situazione. Io ho dovuto rimodulare la testa. E ancora oggi, quando qualche nuvoletta diventa pensiero e si prepara a scatenare la tempesta, dialogo con me stesso. Anche a voce alta».

Al destino ci crede?

«Sì, tutto è segnato. Da due anni abito in una nuova casa, a Decimoputzu, in mezzo alla natura, come avevo sempre desiderato. Non riuscivo a trovare il mio regno. Invece poi si è materializzato. L'ho chiamato Villa Folgore: all'ingresso c'è un pennone di otto metri con la bandiera dell'Italia».

Dal suo regno a cosa pensa più spesso?

«Ho imparato a combattere anche contro il dolore quotidiano: le protesi delle gambe creano continuamente delle vesciche, di cui aspiro il liquido con una siringa. Ma quando la sera mi riposo, sento la pace. Nella mia prima vita la fatica mi faceva sentire immortale, adesso avverto la bellezza del fermarsi. Mi godo il momento. Ogni giorno è diventato prezioso. La sofferenza, che ci piaccia o meno, fa parte della vita. Dobbiamo solo cercare di non sprecare il tempo, perché non si recupera».

I suoi fratelli li sente?

«No, siamo stati famiglia per troppo poco tempo. E anche con un padre a tratti violento. In collegio venne a trovarmi una sola volta, accompagnato da un'altra donna».

E sua madre?

«La vidi dopo tre anni. Il giorno che provai a scappare per tornare da lei a Cagliari, mi addormentai sulla Carlo Felice. Mi trovò una coppia di signori, venni riportato in collegio. In realtà, sarei dovuto scappare insieme a Paolo, che poi non ebbe il coraggio. Col tempo ci siamo persi. Lo ritrovai da adulto, una sera, dove abitavo da bambino. Era magrissimo, consumato dalla droga. Poi più nulla. Fino a quando un pomeriggio, mentre in cimitero cercavo la tomba di mia mamma, vidi quella di Paolo. Non aveva un fiore. Ne presi due da un'altra, dove c'era la foto di una giovane donna. A cui chiesi il permesso». 

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