Il serpente di polvere che si annoda intorno a Monte Onixeddu, ai confini delle terre di carbone e barite, tra Carbonia e Gonnesa, ha smesso di agitarsi. Il tormentone di tir carichi di veleni che da tre anni stava violando quei compluvi si è inesorabilmente fermato. La fila davanti ai cancelli della Riverso, discarica d’inferno, è sparita. Alla finestra, per gli ultimi giorni, qualche lavoratore, di quelli affidati alla sicurezza della collina avvelenata. Per il resto la fuga da quell’enclave di rifiuti pericolosi irto sulle ceneri della miniera di Barega è segnata. Fuga vera, compreso il blitz di qualche giorno fa che chiude le sedi di Carbonia, quella di Serra Scirieddus e quella di viale Armando Diaz a Cagliari. I verbali blindati nella Camera di Commercio lombarda segnano una new entry: la Riverso S.p.A che transita da Cagliari alla city finanziaria per eccellenza. Un’operazione che riproduciamo nei documenti di cui siamo in possesso, a testimonianza di una pianificazione di dettaglio. Si cambia la sede legale, non solo per non pagare le tasse in Sardegna, ma, secondo i più esperti, anche per cercare un foro legale lontano dalle possibili tensioni sociali e dalla disfatta ambientale di Serra Scirieddus. Tutto come volevasi dimostrare: in silenzio e senza preavviso. La tecnica è, ormai, da tempo consolidata. Le disposizioni erano da tempo impartite a tecnici e operai: nessuno fiati, stiamo facendo tutto il possibile per salvarvi il posto di lavoro. Mesi e mesi di agonia e, poi, ieri il colpo finale: tutti a casa, nessuno escluso, guardiani compresi. Quarantasei lavoratori traditi dalla loro stessa missione: riempire a più non posso, nel più breve tempo possibile, quegli argini di veleni. Il piano, traguardato nella sequenza dei tempi, dei modi e delle quantità di rifiuti sembra disegnato a tavolino nel minimo dettaglio. Non si spiega diversamente il motivo per il quale quella discarica sia stata riempita all’inverosimile in appena due anni con una carovana infinita di rifiuti giunti in Sardegna, spediti da ogni pertugio inquinato d’Italia, con il solo obiettivo di fare cassa come se non ci fosse un domani. E, in effetti, il domani non c’era.

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Non poteva esserci, e lo sapevano, senza tema di smentita, prima di tutti i proprietari di quell’inferno di veleni. Sapevano che mai nessuno avrebbe concesso una polizza fideiussoria ad una società a rischio revocatoria, visto che il fallimento della società madre, la Daneco, era stato dichiarato senza ulteriori indugi nei mesi scorsi. Il rischio latente incombe come una mannaia sapendo che la discarica, quella della Riverso, era stata oggetto di una compravendita sul filo del rasoio, visti i tempi del concordato e poi del fallimento. Cessione avvenuta tra soggetti, peraltro, legati direttamente alla società fallita. Nessuno poteva fidarsi a concedere una polizza assicurativa per i prossimi trent’anni, tanti ne prevede la legge, per tutelare il post discarica sia in termini di monitoraggio che di bonifica e messa in sicurezza del sito. Quelle polizze, persino quelle farlocche, hanno cessato di esistere a giugno scorso. Le società bulgare e romene che avevano rilasciato garanzie inesistenti sono sparite, avvolte dalla cappa misteriosa che volteggia nei paesi dell’Est. Serviva, a conti fatti, una polizza di 16 milioni, che nessuno ha mai pensato di dare. Troppi rischi e infinite criticità. Francesco Colucci, proprietario al 99% della discarica, però, nel mondo dei rifiuti naviga da sempre e ne conosce ogni insidia. All’appuntamento con la scadenza della fideiussione è arrivato con un “abbancamento” ciclopico di rifiuti pericolosi extraregionali, provenienti prevalentemente dal nord e centro Italia.

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Una montagna di veleni che gli ha consentito negli ultimi tre anni di mettere in cassaforte una montagna di soldi. Si è passati dalle 4.866 tonnellate nel 2017 alle 61.939 tonnellate nel 2018, le 81.436 tonnellate nel 2019 e le 37.985 nei primi 5 mesi del 2020. Nel 2017 Colucci guadagnava da quella discarica “appena” 3 milioni e 720 mila euro. Sino all’accordo con i signori dei veleni del Nord e centro Italia. Dal 2018 i conti hanno conquistato l’Everest, la zecca dei soldi prodotti dai rifiuti si è incantata: i ricavi segnano 10 milioni e 332 mila euro. Incremento da scalata finanziaria senza precedenti: più 177,74 % rispetto all’anno precedente. La discarica di Serra Scirieddus diventa una slot machine impazzita: nel 2019 un ulteriore balzo in avanti dei ricavi che sfondano il muro dei 13 milioni, un più 26,79% rispetto al 2018 e più 204% sul 2017.

Ora che è accertato che nessuno rischierà una polizza fideiussoria su quel catino di veleni si svelano gli arcani più reconditi della fuga della Riverso verso Milano. Una scelta inspiegabile che lascia aperte le più recondite strategie d’abbandono. Di certo i passaggi messi in atto lasciano interdetti: l’ultimo ieri mattina. In nome e per conto della Riverso la missiva firmata dal capo impianto parte alla volta dei custodi della discarica, gli ultimi rimasti in esercizio. Il contenuto è esaustivo e chiaro come pochi: da domani tutti a casa, in cassa integrazione il vostro posto lo prenderanno i vigilantes armati della Ol Securpol srl., una società di vigilanza con la sede a 300 e fischia chilometri da Serra Scirieddus. Uomini armati in trasferta: passeranno da proteggere le ville della Costa Smeralda a vigilare i veleni di Barega. Con un piccolo dettaglio di cui l’Inps non potrà non tener conto: i custodi dipendenti della Riverso finiranno in cassa integrazione, pagati dallo Stato, mentre la società, invece, li sostituirà con una società di vigilanza privata. In ballo c’è la cacciata dei dipendenti e le modalità: nella lettera che pubblichiamo, trasmessa ieri ai lavoratori è previsto che i custodi esperti della Riverso debbano affiancare per 7 giorni le guardie giurate. Chissà se l’Arpas deciderà di verificare direttamente il monitoraggio dei percolati, dei quantitativi di acqua avvelenata che si estrae da quel cumulo infinito di veleni.

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Di certo non lo faranno più quei dipendenti che l’avevano sempre fatto. La questione della sicurezza ambientale, dei rischi e pericoli per una catastrofe ambientale, è la partita più scottante di questa vicenda. Riverso chiude tutto perché non ha più una polizza assicurativa, ne servirebbe una da almeno 16 milioni di euro, e nel contempo nessuno si occupa del futuro di questa discarica, una vera e propria bomba ecologica, la più imponente della Sardegna. Non si possono riscuotere le polizze bulgare e romene perché, come rivelato dall’inchiesta dell’Unione sarda, risultano fallite o dichiarate interdette. E, dunque, quel disastro resterà in capo alla Regione che finirà per pagare, con i soldi dei sardi, la messa in sicurezza di quella discarica e il suo monitoraggio per i prossimi trent’anni, come prevede la norma. Ultimo dettaglio di questa vicenda: il 4 ottobre prossimo, alle 16.00, nell’ufficio amministrativo, al numero tre di viale Armando Diaz a Cagliari, è convocata l’assemblea ordinaria dei soci. L’ordine del giorno non si occuperà né dei lavoratori, tantomeno della messa in sicurezza della discarica. Il primo punto dell’agenda è esplicito: Proposta di distribuzione di riserve disponibili fino alla concorrenza di un milione di euro. Come dire la discarica e i lavoratori possono attendere, per adesso ci dividiamo il gruzzolo. Della bomba ecologica a Serra Scirieddus se ne dovranno occupare i bilanci pubblici, quelli pagati dai sardi.

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