La comunità dei nati, emigrati e residenti, costituisce la Famiglia Sarda, e l’isola di Sardegna ne è la Casa. Ogni famiglia custodisce la propria, con cura e amore, essendo il luogo dove abitano intimità e solidarietà, gioie e dolori, appartenenza e sacralità. E’ il luogo dei valori perenni e degli affetti che sempre ci fanno tornare, quando ce ne allontaniamo. E’ il luogo nel quale lo spirito della famiglia che la abita si estende e ne pervade ogni angolo, forma, colore, odore; nel quale troviamo rifugio e protezione fin dalla nascita e la cui violazione suscita aggressività, talvolta anche scomposta. Ed è il luogo nel quale desideriamo trovare l’ultimo conforto, al momento della dipartita. 

Ora, osserviamo con attenzione la mappa della prima pagina del giornale: ecco come la Casa della Famiglia Sarda, la Sardegna, è stata e sarà peggio ridotta dalla pretesa di caricarla dell’onere di produrre buona parte dell’energia elettrica da fonti rinnovabili, necessaria per il fabbisogno nazionale.

Oltre al ferro piantato lasciato ad arrugginire e ciminiere fumanti e inquinanti; scorie minerarie e industriali a formare montagne di colore rosso, nocivo per le falde acquifere; installazioni di acciaio emananti effluvi letali e vasti territori bombardati in frequenti esercitazioni militari; sviluppo industriale rivelatosi fittizio, con buste paga e cassa integrazione sostenute da prebende pubbliche reclamate sotto ricatto occupazionale; discariche di fanghi fognari provenienti dal continente, non bastassero i nostri, si aggiungono svendita, o baratto, di attività pubbliche strategiche, come banche e aeroporti, e distruzione, nel silenzio dei più, della fu Compagnia Aerea locale, già Alisarda, patrimonio di competenze e professionalità tecniche e umane irripetibili, con millecinquecento licenziamenti in un colpo solo.

A questo disastro si aggiungono ampie porzioni di paesaggio deturpato da pale eoliche piantate sul profilo dolce di colline e montagne e distese immense di pannelli fotovoltaici, spalmati su campagne fertili e finte serre al solo scopo di accaparrarsi cospicui contributi pubblici. In non pochi si apprestano ora a dare l’ultimo assalto al poco che ci è rimasto, installando ancora pale eoliche e ancora pannelli fotovoltaici a terra, e a chiuderci in un recinto marino di torri di acciaio rotante, a formare palizzate alte centinaia di metri che priveranno residenti e ospiti, figli, nipoti e pronipoti, dell’emozione struggente che la bellezza dell’orizzonte libero del nostro mare ci offre.

Il Dio dell’universo - o la natura - posò dolcemente l’Isola in mezzo al mar Mediterraneo non perché venisse deturpata, violata, sfruttata e spremuta, ma ammirata e ambita dai popoli che l’avessero scoperta, ospiti graditi se rispettosi di luoghi, tradizioni identitarie e persone laboriose impegnate nel faticoso cammino verso la modernità.

È successo, invece, che tanti agguerriti prenditori – e pochi intraprendenti imprenditori, purtroppo - si siano da sempre dati appuntamento qui, decisi a prendersi il meglio e lasciare inquinamento, disoccupazione e sfregio paesaggistico e ambientale. E povertà e sofferenza diffuse. Questo dice la nostra mappa, a volerla leggere senza il velo dell’ipocrisia.

Il nostro paesaggio è ormai una risorsa ambientale scarsa, l’ultima di cui disponiamo, e come tale di inestimabile valore economico e morale.

La crescita di industria turistica e settori agroalimentare e artigianale, manifatturiero e servizi è di vitale importanza per l’incremento del reddito pro capite, oggi metà di quello delle regioni più sviluppate, e la sua crescita dipenderà da quanto faremo per difendere la Casa della Famiglia Sarda. L’ennesimo assalto al paesaggio di terra e di mare, se riuscirà, comprometterà tutela e sviluppo per le generazioni attuali e future, in un gioco a somma negativa per l’Isola. Infatti, l’energia prodotta qui da fonti rinnovabili serve e servirà a far funzionare industrie e riscaldare e raffrescare case e uffici di altri luoghi, così che oltre alla strutturale dipendenza economica avremo anche la totale dipendenza energetica, collegati al “continente” da un cavo elettrico che ci terrà al guinzaglio, sottomessi, umiliati e definitivamente vinti.

Altro sarebbe se l’energia prodotta qui da sole e vento, ma in luoghi appropriati, fosse utilizzata per produrre idrogeno verde, combustibile sostitutivo dei fossili per far andare industrie energivore, caldaie e condizionatori, automobili e fornelli di cucina. Poiché nel bruciare emette vapore acqueo e zero emissioni nocive per l’atmosfera, la nostra Casa diverrebbe la prima Bioregione d’Europa!

Taluni non disinteressati accusano L’Unione Sarda di essere contro imprese e imprenditori, società e fondi privati, pubblici e para pubblici. Niente di tutto questo. Anzi, nutriamo rispetto per persone, imprese e istituzioni, senza tuttavia farci impressionare da minacce e querele che abbiano lo scopo di inibire la redazione di questo giornale nell’onesto e libero esercizio della professione giornalistica. Siamo piuttosto contro atti, comportamenti e fatti che danneggino la nostra Casa comune. E guardiamo con disincanto quelli che tentano ancora di intortarci, raccontando la favola che la compromissione del paesaggio sia necessaria per sviluppo e occupazione, mentre di distruzione o accaparramento di valore si tratta.

Non crediamo alle mastodontiche balle di costoro quando vengono qui, preoccupati dei giovani disoccupati e genitori cassintegrati, salvo scoprire che solo di attenzione pelosa si tratta mentre ciò che vogliono è solo succhiarci linfa vitale.

Sappiamo perché certuni ci fanno visita, mielosi e ossequiosi: per moltiplicare n volte il capitale investito con la rendita stratosferica garantita da connivenze ministeriali e qualcuna pure locale. Miliardi di euro di valore borsistico incamerano, senza ricadute reali e positive sul territorio deturpato da rovinose brutture, spesso con in mano la sola autorizzazione che, genuflesso, qualcuno consegna loro.

Questo dice la mappa della nostra Casa.

Altro sarebbe se costoro venissero a investire in attività produttive degne di questo nome: tappeti rossi potremmo stendere ai loro piedi, per accompagnarli sulla via di tutela e sviluppo della Sardegna.

Abbiamo tutti il dovere morale di difendere la Casa che va in rovina, nell’interesse comune e per non esporci, colpevoli, al giudizio severo di Storia, figli, nipoti e pronipoti. Lasciamo quindi da parte le ragioni che ci dividono, come da tradizione. Lasciamo che ciascuno professi le idee politiche che più gli aggradano; che si discuta su massimi sistemi: indipendenza e sovranità, guerra e pace, geopolitica e diritto internazionale. E lasciamo che pure il virus dell’invidia sociale continui a roderci e consumarci. Ma sugli interessi concreti della Sardegna facciamo, ciascuno di noi, qualcosa per difenderli. Anche poco, ma facciamolo. Ne guadagneremo in autostima, e con orgoglio potremo raccontarlo a figli e nipoti.

Istituzioni regionali e locali, parlamentari, sindaci e clero; università, ordini professionali e associazioni imprenditoriali, sindacali e ambientaliste; organi di informazione su carta e web e mondo di arti e cultura: uniamoci, almeno una volta, su un punto: difendiamo la Casa della Famiglia Sarda, per consegnarla in tutta la sua bellezza alle generazioni future. E facciamolo pieni di speranza, come il mugnaio che al principe sassone prepotente, intenzionato a impedirgli di usare l’acqua del fiume per il suo mulino, disse fiducioso: “Ci sarà pure un giudice a Berlino!” Così noi: ci sarà pure, un giudice, da qualche parte, a Cagliari o a Roma, a Strasburgo o in Lussemburgo, che ci riconosca il diritto di vivere nella nostra Casa pulita e ordinata, nella quale creare ricchezza collettiva e diffondere benessere. L’arma di difesa legittima è l’impugnazione, in tutte le sedi, di ogni singolo passaggio burocratico, anche minuscolo, riguardante attività dannose per la comunità cui apparteniamo. A chi verrà con intento predatorio impugniamo anche lo scontrino del caffè!

Francesco Cocco Ortu, fondatore nel 1889 di questo giornale, che volle chiamare, non a caso, L’Unione Sarda, apprezzerebbe, e i nostri discendenti ne sarebbero contenti. 

SERGIO ZUNCHEDDU

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