La barba è appena spruzzata di bianco, gli occhi sono gli stessi di allora. Quelli che trent’anni fa, il 15 gennaio del 1992, si sono aperti sul principe degli incubi, un uomo nero e incappucciato che ti porta via dal tuo letto e dalla tue certezze di bambino. I giochi, la mamma, le tabelline da studiare come gli ricordò suo padre Fateh nel primo appello, aggancio a una normalità saltata in aria. Aveva sette anni Farouk Kassam e nei mesi successivi sarebbe diventato il caso. Il protagonista del sequestro dei misteri, quello che, in ruoli diversi, ha visto in campo due generazioni di primule rosse del banditismo sardo. Oggi ne ha 37 ed è un uomo d’affari che si divide tra Roma, Dubai e la Sardegna dove, tra le altre cose, continua a seguire anche l’albergo di famiglia, il “Luci di la Muntagna”. Attraversa i ricordi di trent’anni, anche i più crudi, con apparente leggerezza e garbo. E non ha ancora deciso di ricostruire l’orecchio che segna i giorni della barbarie.

Il 15 gennaio è una data segnata sul suo calendario?

«In realtà no. In trent’anni mi è capitato più spesso di scordare che di ricordare. Magari me lo ricordano i miei genitori. Non ho dimenticato nulla ma non ho il 15 gennaio nella testa».

In un’intervista a questo giornale, nel 2002 aveva detto che a ricostruire l’orecchio ci avrebbe forse pensato tra vent’anni. Il momento è arrivato?

«No, e forse non arriverà mai. Non ne sento il bisogno o almeno non ancora. Forse lo sento come una cicatrice di guerra».

Il ricordo più vivo di quei giorni?

«Ricordo tutto. Ma in particolare il primo impatto con tutta la storia. Quando un uomo incappucciato e vestito di nero è venuto a prendermi sotto le coperte».

Il più brutto in assoluto?

«Paradossalmente quando mi hanno liberato, perché non avevo capito che era tutto finito. Mi hanno lasciato da solo, seduto su una roccia in piena notte dicendo che qualcuno sarebbe venuto a prendermi. A pensarci ora, non poteva essere peggio di quello che avevo vissuto fino ad allora ma non sapevo cosa mi aspettava. Il taglio dell’orecchio non è stato il momento peggiore quando l’ho vissuto, ho realizzato solo dopo. E poi ci sono state le frustate, quello che mi costringevano a mangiare, il modo in cui dovevo fare i miei bisogni».

Nella grotta-prigione ha disegnato delle casette, prove che poi sono state importanti nel processo contro i suoi sequestratori. Ha lasciato le tracce come Pollicino?

«È stata una cosa del tutto inconsapevole. Mi annoiavo, il tempo non passava mai, e l’unico passatempo era fare questi disegni. Un bambino d’istinto disegna una casetta. Non pensavo certamente a lasciare una traccia del mio passaggio».

Il ricordo più bello dopo la liberazione?

«Sentirsi libero è stato un percorso molto lungo. Non c’è stato un momento preciso ma ad un certo punto sono riuscito ad andare oltre questa storia emotivamente ed è stato fondamentale il sostegno della mia famiglia e degli amici che mi sono stati accanto, hanno saputo farmi pensare ad altro quando era necessario. Diciamo che credo di averla davvero superata dai 25 anni in su, da quando sono riuscito a parlarne anche con leggerezza».

Ha mai avuto paura di tornare in Sardegna?

«Mai. Tornerò tra qualche giorno, ci ho trascorso le feste, ci passo parte della mia vita anche perché mi occupo dell’albergo di famiglia».

Neppure da piccolo?

«No. Magari da bambino, mi sentivo un po’ troppo gli occhi addosso da parte delle altre persone».

Oggi per le persone che incontra è ancora “il piccolo Farouk”?

«Tanti ancora ricordano, o direttamente o perché ogni tanto se ne parla su giornali. C’è anche chi mi incontra e dice “mi ricordi qualcuno”. Il lato positivo è che c’è ancora tanta solidarietà e partecipazione anche tra chi commenta sui social».

La sua vicenda è stata la prima che ha visto in Sardegna una mobilitazione popolare forte contro i sequestri di persona. La solidarietà è stata un conforto?

«Sì, l’ho sentita molto ed è uno dei motivi per cui sento molto forte il legame con questa terra. Mi sento anche io un po’ sardo».

Il suo sequestro è tra i più famosi perché è associato, in ruoli diversi, ai nomi di Matteo Boe e Graziano Mesina. Segue le loro vicende?

«Leggo i giornali ma non ho molto da dire in proposito. Credo che ognuno sia responsabile dei propri atti e basta. Di Boe non si sente parlare e credo sia un bene, Mesina invece fa sempre parlare di sé».

Ha dichiarato che non avrebbe mai perdonato il suo sequestratore Matteo Boe. Resta della stessa opinione?

«Perdonare non è mai facile, e non tanto per un fatto personale ma per tutto ciò che ha rappresentato la persona, per le sofferenze non solo mie ma della mia famiglia. Penso che la questione non sia il mio perdono ma se lui doveva chiedere perdono».

Cosa ha pensato quando è tornato libero?

«Al primo impatto “ma sono già passati vent’anni?”. Comunque è un essere umano, spero che impegni al meglio possibile il suo tempo in libertà».

Una delle immagini più forti di trent’anni fa è stata quella dell’appello di sua madre alle donne di Barbagia il giorno di Pasqua ad Orgosolo. Cosa ha pensato quando l’ha rivista?

«Ha avuto molto coraggio, penso sia stato il gesto di disperazione di una madre che pensa a cosa può fare per salvare suo figlio. E conoscendola, si apprezza ancora di più il valore di quel gesto, perché non è una persona che si espone facilmente. Penso che quell’appello di mia madre abbia avuto il suo peso».

Cosa racconterebbe di quei giorni a se stesso bambino?

«Oddio, non sono preparato a questa domanda, forse perché al momento non ho figli ma spero che verrà quel giorno. Forse che la vita va vissuta in tutti i percorsi che dobbiamo attraversare».

Caterina De Roberto

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