Il cartello archeologico è arso dal tempo. Il sole impetuoso che da sempre si riverbera come uno specchio su quelle montagne di sabbia lo ha reso quasi illeggibile, come se qui il trascorrere dei giorni e del vento avesse spazzato via monumenti e vincoli di questa antica terra di miniera. Il tracciato ferroviario, quello dei vagoni carichi di blenda e galena che hanno solcato per secoli ginepri e anfratti, sino all’antico magazzino posizionato quasi in riva al mare, segna il deragliamento della civiltà dei minatori, quelli di Ingurtosu e Montevecchio. Costa impervia ed esclusiva, a ridosso del moto ondoso che si infrange sulla Costa Verde, territorio di Arbus, ai confini con Guspini e Buggerru. Qui, in questo paradiso terrestre, irripetibile e intonso, segnato dalle impronte di cervi che scorrazzano incontrastati dalle cime di roccia a quelle di sabbia, il tempo si è fermato, inesorabilmente.

Il sogno del Colonnello

A salvare l’antica civiltà mineraria dal disfacimento ci aveva provato agli inizi degli anni ’90 il Colonello, come qui ancora lo chiamano. Sergio Caroli, figlio dell’ultimo direttore della miniera architettonicamente più elegante di tutte, quella di Ingurtosu, aveva intravvisto prima di altri il sogno di trasformare quelle antiche vestigia minerarie in un’oasi di turismo esclusivo, nel cuore delle gallerie di un tempo. Quel vecchio magazzino, tutto pietre e archi, incastonato a ridosso della risacca su quella spiaggia infinita di Piscinas, era stato miracolosamente salvato dall’incedere del tempo. Trasformato con rara perizia in un vero e proprio hotel, tutto charme e relax, mantenendo intatte le gallerie di pietra, le travi di ginepro, i pavimenti di ardesia, i tetti con dolci pendenze, quasi a seguire quelle leggere delle dune.

Sparito l’albergo

Ora, di quel “Monumento”, dichiarato tale con tanto di decreto del Ministero dei Beni Culturali del 1984, è rimasto poco e niente. Non c’è più l’albergo e non c’è più nemmeno quel bene protetto da imponenti vincoli di tutela, simili a quelli del Colosseo. L’ingordigia degli affari che annientano identità e paesaggio, storia e cultura, hanno raso al suolo quel bene minerario, rimasto monumentale solo nelle carte e in quel cartello ancora posizionato all’ingresso. Arrivare a Piscinas, dopo aver attraversato l’arco del Castello di Ingurtosu, è come entrare in punta di piedi in un mondo che non c’è più, i cui simboli cadono a pezzi, giorno dopo giorno, senza che nessuno fermi l’incedere del tempo. Raggiungere quelle montagne di sabbia dorata, uniche di queste dimensioni nel Mediterraneo, incastonate come diamanti nelle viscere della terra, è come toccare con mano l’approdo finale di una storia intrisa di natura e miniere, ambiente e fascino segreto. Quello che fu l’albergo “Le Dune”, capace per trent’anni di attrarre scrittori e poeti, artisti, donne e uomini della cultura, e segnare il punto più alto della riconversione di quel ben di Dio in patrimonio storico e turistico, è ora maldestramente avvolto da reti strampalate e teli a brandelli, perforati dalle raffiche di vento e sabbia che qui cesellano il paesaggio come una scultura sempre agitata. C’è il cartello del Ministero di Franceschini, più ruggine che splendore, e c’è quello di un cantiere iniziato male e finito peggio. Dal Colonnello al nuovo messia delle dune, il fu direttore del patrimonio immobiliare del più potente ente di previdenza, quello dei medici, tale Luigi Antonio Caccamo, il passo più che breve si è rivelato un vero e proprio salto nel baratro. Le vie del signore, quello dei beni immobili dei medici d’Italia, nato a Messina ma calabrese d’origine, e i mega finanziamenti, oltre sei milioni di euro, di Invitalia, l’agenzia che fu di Domenico Arcuri, il celebre commissario alle mascherine in tempo di Covid, anche lui calabrese, hanno spalancato la breccia ad uno stravolgimento di quel bene minerario divenuto un cumulo di macerie e abbandono. Nel cartello dei lavori, affisso all’ingresso del cantiere, la fine non era stata indicata. Un maldestro presentimento. Qualche giorno fa, il Tar Sardegna, con una sentenza verità ha scoperchiato quello “sfregio” che un’inchiesta del nostro giornale aveva documentato ad aprile dello scorso anno, costringendo tutti gli enti, Soprintendenza per prima, a riaprire il fascicolo “Piscinas – le Dune. Il dietro le quinte, i verbali, le autorizzazioni revocate emergono con una sentenza dei Giudici del Tribunale Amministrativo Regionale che non lascia scampo ad interpretazioni burocratiche. I togati sono chiari. Sulla decisione degli organi dello Stato di revocare le autorizzazioni già concesse sono espliciti:«Non può avere alcun rilievo, sulla legittimità dell’operato della Soprintendenza, la circostanza che la stessa ha avviato il procedimento di annullamento in autotutela del precedente parere favorevole a seguito della pubblicazione di alcuni articoli di stampa in cui si sollevavano dubbi sulla regolarità dei lavori in corso nella struttura». In pratica i magistrati amministrativi respingono le accuse della società di Caccamo, “Le Dune Services srl”, sulla decisione della Soprintendenza di revocare in sede di autotutela quelle autorizzazioni in seguito all’inchiesta del nostro giornale. Per il Presidente del Tar, Dante D’Alessio, il Giudice estensore Tito Aru e il Giudice consigliere Oscar Marongiu «a fronte di tali notizie i successivi accertamenti compiuti della Soprintendenza di Cagliari risultano piuttosto doverosi». Una sentenza, però, che apre un capitolo ben più rilevante, che va ben oltre la decisione della Soprintendenza di bloccare i lavori relativi alla costruzione di nuove parti di edificio, tutte dichiarate da Caccamo, caso strano, fondamentali per far funzionare l’hotel. I Giudici del Tar, infatti, non perdono occasione per ribadire, nel corpo della sentenza e nello stesso dispositivo un concetto scandito con la forza delle leggi e l’imponenza del diritto: «La Soprintendenza, avendo rilevato, a seguito del suindicato sopralluogo nell’area di cantiere, che i lavori in corso di esecuzione e quelli ancora da eseguire, oggetto del procedimento presso il Suape del Comune di Arbus, potevano arrecare un grave danno all’area protetta con i ricordati rigorosi vincoli di immodificabilità, ha quindi ritenuto, nell’esercizio dei suoi poteri, di inibire ogni ulteriore compromissione dell’area protetta ed ha quindi annullato in autotutela anche l’atto con il quale, evidentemente sulla base di una diversa rappresentazione della realtà, aveva in precedenza ritenuto che i lavori potessero essere realizzati (sia pure con le prescrizioni imposte dalla Regione)».

Immodificabilità

Tre concetti chiave: grave danno nei lavori in esecuzione e da eseguire, rischio ulteriore compromissione dell’area protetta, rigorosi vincoli di immodificabilità. Passaggi che segnano un capitolo decisivo della vicenda: lo stravolgimento della struttura storica e monumentale è accertato, sia dalla Soprintendenza che dagli stessi Giudici del Tar. Il procedimento giudiziario amministrativo, per il momento, si è occupato solo delle nuove opere previste e del blocco dei lavori deciso dalla Soprintendenza. Dietro l’angolo, però, incombono la posizione della Regione, che stranamente ha prima negato l’autorizzazione e, poi, invece, l’ha concessa e quella della Procura di Cagliari che ha certamente aperto da tempo un fascicolo sulla vicenda. E sono sempre i Giudici del Tar ad ampliare il valore e il merito della decisione: «Nel merito della questione, si è già ricordato che le opere per cui è causa (ed anche quelle oggetto di precedenti atti autorizzativi) incidono su un’area di massima rilevanza della fascia costiera della Sardegna che risulta protetta, invero, sotto plurimi profili di tutela storico – monumentale, paesaggistica ed ambientale che si sono ricordati».

Dossier in Procura

La Soprintendenza ha revocato una parte delle autorizzazioni in sede di autotutela, la Regione, per adesso, tace su tutto il fronte. Gli assessorati regionali, Urbanistica e Ambiente, non si sono costituiti nel giudizio davanti al Tar, ma ora, dopo la sentenza, non sarà facile continuare ad ignorare quelle palesi violazioni. Un dato è certo: quel “Monumento” è stato stravolto. Secondo i Giudici è stata violata l’«immodificabilità» di un bene storico, tutelato con il massimo grado di tutela, come fosse un Colosseo tra le miniere. Il dossier “Dune di Piscinas” ora, però, è nelle mani della Procura di Cagliari.

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