Mosè ad Ottana, terra profonda di Sardegna, strappata alla pastorizia dalla petrolchimica più nefasta, non c’è mai passato. Nelle sacre scritture non v’è traccia nemmeno di piaghe dispiegate nei campi di Noragugume, Bolotana, Olzai sino a Sedilo, in terra d’Ardia. Il profeta di Dio, racconta la Bibbia, «distese il bastone» solo «sul paese di Egitto e il Signore diresse lì un vento d'oriente per tutto quel giorno e tutta la notte. Quando fu mattina, il vento di oriente aveva portato le cavallette. Esse coprirono tutto il paese, così che ne fu oscurato; divorarono ogni erba della terra e ogni frutto d'albero che la grandine aveva risparmiato: nulla di verde rimase sugli alberi e delle erbe dei campi».

Mosè ad Ottana

Eppure, nonostante quella profezia fosse rivolta alla terra del Faraone, l’epocale distruzione di locuste voraci marcia inesorabile da giorni su quelle distese infinite di terre arse dal caldo di “Hannibal”, a cavallo del fiume più grande dell’Isola, il Tirso. Quelle due ciminiere nel cuore del petrolchimico che non c’è più, croce e devastazione nella storia industriale dell’Isola, irrompono nel proscenio da qualsiasi orizzonte traguardi questa terra. L’asfalto qui ha cambiato colore. Quella strada segnalata da cartelli sforacchiati dalla ruggine non c’è più. Come se la maledizione di Mosè avesse scelto crocevia e mappali, strade e sentieri, quando si entra nella zona industriale a ridosso di Ottana e Bolotana, capisci che le narrazioni bibliche, i flagelli descritti nelle sacre scritture, non sono una retorica fantasia. Chi non avesse letto il capitolo 10 dell’Esodo della Bibbia non ha altro da fare che percorrere, come se vedesse un video-libro, la strada provinciale 17, quella che collega i due paesi che si dividono la zona industriale della Sardegna centrale. Il manto stradale si muove, come se avesse incorporato un tapis roulant, saltelli micrometrici, come un moto ondoso terrestre. Una volta contromano, un’altra in diagonale, oppure laddove il tracciato del sole più riscalda il suolo, come inseguire il caldo della terra. Miliardi e miliardi di cavallette. Sì, miliardi, visto che ogni sciame che si muove in questo spettrale paesaggio, bruciato anzitempo da incuria e abbandono, può includere anche un miliardo e mezzo di “individui”. Stiamo parlando di un 200-300 tonnellate di cavallette. Per capire l’onda d’urto biblica che si sta abbattendo su queste terre basta una semplice constatazione: ogni cavalletta è in grado giornalmente di consumare una quantità di biomassa vegetale pari al loro peso corporeo. Ogni giorno che il sole si leva in terra di Planargia, sul versante di Ottana, si distruggono 200-300 tonnellate di campi coltivati, di grano, erba medica, essenze arboree di ogni genere. Questo per un solo sciame, ma è certo che il territorio ormai sia abbondantemente fuori controllo. I mappali georeferenziati, segnalati e riscontrati da chi vive dentro questa catastrofe e dai tecnici di Laore, hanno raggiunto dimensioni che rendono minuscolo l’incendio che ha devastato il Montiferru. I confini delle zone rosse, declinati nella carta del disastro, segnano la stratosferica cifra di 30.000 ettari colpiti dallo tsunami delle cavallette. Stiamo parlando, utilizzando l’unità di misura più domenicale che ci sia, di 30.000 campi di calcio. Con la differenza che i campi di calcio non si muovono, non avanzano, mentre quest’orda barbarica di “acrididi” corre su strade e campi come se ogni giorno diventasse più vorace e consistente. Una lotta impari, tardiva, disorganizzata, senza risorse economiche e umane. Pochi tecnici abbandonati a sé stessi, un piano di emergenza che potrebbe essere utile per fermare una “mandria di formiche”, ma non certo per bloccare l’incedere di un esercito divoratore di cavallette. Se arrivi in questo quadrilatero capisci subito che la guerra è persa. È sabato mattina quando varchiamo il cancello dell’inferno di “Dociostaurus maroccanus”, più nota come grillastro crociato o locusta del Marocco. Negli uffici di Cagliari sono convinti che nel fine settimana le cavallette non divorino. Qui oggi non si è visto nessuno di quei 15 atomizzatori che dovrebbero irrorare le terre infestate. Sì, quindici spargitori di principi attivi per 30 mila ettari, come risulta dai documenti interni e riservati che declinano la sconfitta sul campo. In effetti qualcosa la stanno spargendo sul cammino di queste “bestie” d’Egitto, peccato che i risultati siano praticamente inesistenti, sia per quanto riguarda i quantitativi che per gli effetti. In campagna qui, a differenza di quanto si possa credere, ci sono allevatori che hanno studiato, che sono ingegneri e avvocati, periti agrari e agronomi. Giovani leve che hanno fior fiore di aziende costretti a combattere una piaga che non gli appartiene perché loro, i terreni, li hanno arati e coltivati per tempo. Le loro greggi sono tosate e godono di paddock moderni. Peccato che siano circondati da negligenza e menefreghismo. Migliaia di ettari pubblici e privati, quelli che sperano di fare i soldi con il fotovoltaico pagato dai cittadini, sono abbandonati da decenni. Mai un colpo d’aratro. Mai un’attenzione. Coltivano il sogno di incentivi milionari e covano milioni di uova di cavallette, ogni anno sempre di più. E quando qualcuno fa notare che i principi attivi che si stanno utilizzando sono “termolabili”, ovvero gli effetti scompaiono con l’avanzare del caldo, cascano dalle nuvole. Per aver effetto, pur sempre minimo, se venisse utilizzato su un fronte molto più ampio, dovrebbe essere irrorato la notte e alle prime ore del mattino. Qui, però, per quegli apparecchi la mattina iniziano a spruzzare quando il sole sta già traguardando la seconda lancetta dopo l’alba. L’emergenza è titanica, inimmaginabile per chi occupa, senza schiodarsi, una scrivania di un assessorato. Nelle scorse settimane sul luogo della catastrofe è arrivato persino un drone. Da sperimentare su un versante a sud delle ciminiere di Ottana. Un fallimento. Quel pipistrello volante avrebbe una capacità di non più di venti litri di irrorazione per volo. Se fosse ben attrezzato potrebbe fare dieci ettari al giorno. Servirebbero 3.000 giorni per l’intera zona rossa, 8 anni. E se anche decidessero di fare un maxi ordine farebbero solo un favore alla ditta produttrice o a quella che li gestirebbe.

Cronaca di un disastro

Per il resto la cronaca del disastro viaggia da azienda ad azienda. Il fieno, quello già mietuto, in poche ore si trasforma in paglia, quello da tagliare viene letteralmente raso al suolo dal passaggio dell’onda divoratrice. Le locuste in due giorni lo svuotano come se avessero un selezionatore incorporato, lasciano sul terreno gli scarti e consumano il mangime destinato alle greggi. L’avanzata è inesorabile, da Monte Nigheddu, in agro di Ottana alla coltura di patate di Sedilo. Entrano dentro casa, dentro le aziende. Quando il sole è alto sulla piana di Ottana, le mandrie di cavallette avanzano a passo da “cavalleria” su tutta la valle del Tirso. Le zone rosse sono tracciate su una mappa che segna l’avanzata inesorabile sul campo. Ora lo sguardo è tutto rivolto al fronte sud, verso Sedilo. L’arco di San Costantino è a due passi. Se non ci sarà il miracolo, lo scenario rischia di trasformarsi in catastrofe, con il Campidano ad un tiro di cavallette. Il disastro è già scritto nelle carte rimaste sino ad oggi segrete.

(1.continua)

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