In Sardegna abbiamo 377 Comuni: molti piccolissimi, altri meno, mentre pochi superano i diecimila abitanti. Ognuno, però, ha il suo costume, le sue specialità gastronomiche, il suo patrono e, naturalmente, il campo di calcio. Quello non deve mancare. Così come il parroco e il campanile. Una volta c'era l'ostetrica ma, di questi tempi, i bimbi non nascono più e quei pochi vedono arrivare il loro nuovo mondo nell'ospedale più vicino.

Se c'è, invece, una cosa che cresce sono le sagre paesane - che mischiano il sacro con il profano - che richiamano una moltitudine di persone, soprattutto dalle grandi città, felici di portare a casa un pezzo di pecorino, un sacchetto di castagne, una salsiccia e, perché no, un barattolo di miele di corbezzolo. È di questi giorni la polemica che ha fatto seguito alle dichiarazioni degli amministratori regionali che, non essendoci fondi economici a sufficienza, molte delle citate manifestazioni non avranno i contributi necessari per le loro sagre. Per la verità c'è anche una mezza promessa di accontentare tutti ma chi vivrà vedrà.

La mano pubblica, però, secondo la mia modesta riflessione, dovrebbe non solo intervenire per permettere il regolare svolgimento degli eventi ma, soprattutto, mettere ordine al calendario delle centinaia di sagre - con riferimento alla stagione turistica e alla possibilità che le stesse contribuiscano all'allungamento della stagione delle vacanze - non trascurando la necessità che queste manifestazioni sappiano apparire attraverso una immagine che rappresenti, severamente, la cultura, la storia e le tradizioni locali.

Facevo riferimento al sacro e profano. E, allora, non si può tollerare che, a fianco ad una bancarella con i manufatti di Samugheo, ci sia la paccottiglia del finto artigianato sardo o qualsiasi altro tipo di merce lontana dalla nostra tradizione. È vero che la globalizzazione ci ha portato via il senso del gusto, dell'armonia delle forme, della vivacità dei colori ricavati dalla vegetazione mediterranea, pur tuttavia abbiamo il dovere, se non l'obbligo, di custodire l'arte dell'artigianato sardo che non può e non deve essere rappresentato da quelle orribili bottiglie in vetro ricoperte di sughero raffiguranti "su ballu tundu" o una donna in costume.

Cosa dire, poi, dei piatti o oggetti in ceramica con chiari riferimenti alla più sfrenata scopiazzatura di altre realtà esterne? Il problema non è, comunque, di poco conto: sia perché gli organizzatori delle sagre hanno interesse a riempire le strade di bancarelle (dove, certamente, non mancano i falsi prodotti griffati), sia perché gli spazi assegnati servono a fare cassa.

Ma la domanda rimane la stessa e cioè: quale è l'organo pubblico, regionale o provinciale, che deve garantire e sorvegliare affinché la storia, le tradizioni, gli usi e i costumi delle diverse realtà presenti in tante e innumerevoli feste paesane vengano rispettati e tutelati?

VINCENZO FRIGO

GIORNALISTA
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