"Mi hanno scippato l'adolescenza. Nessuno me la potrà restituire. Ho diciannove anni: chiedo solo di poter vivere un'esistenza normale. Non voglio continuare a scappare dagli altri o dover lasciare la mia Cagliari". Francesca Sias lo dice sottovoce. Ma vorrebbe urlare il suo dolore. Da quando aveva tredici anni e frequentava una scuola media del capoluogo è stata additata, per colpa di qualche ragazzino idiota, come iettatrice.

"Tra qualche giorno questo stupido scherzo finirà", ha pensato all'inizio Francesca, ma sono trascorsi sei anni e il perfido gioco si è trasformato in dramma, la maldicenza si è sparsa come un virus incontrollabile alimentata dai social network e l'esistenza di Francesca è stata stravolta, rovinata.

I suoi occhi azzurri trasmettono una forza interiore enorme racchiusa in un corpo minuto, grazie alla famiglia e agli amici è riuscita ad andare avanti, a sopportare anni e anni di gesti scaramantici, prese in giro di ogni tipo, emarginazione continua, telefonate anonime, video e audio offensivi su Instagram, Facebook e WhatsApp.

Francesca ha dovuto lasciare la pallavolo, l'oratorio, disertare feste e serate tra ragazzi perché il suo nome spuntava fuori in troppi contesti, sempre con la stessa diabolica finalità, quasi un rito medievale.

Da ragazza esuberante ed estroversa che era si è chiusa in se stessa, ha iniziato ad avere difficoltà nel relazionarsi con gli altri temendo che quella maldicenza scollegata dalla realtà emergesse all'improvviso. Molti suoi coetanei, forse più deboli, non sarebbero riusciti a sopportare tutto questo.

Ora, al primo anno di Università nella facoltà di Farmacia - ma Francesca spera di fare il medico -, ha trovato la forza di dire basta pubblicamente e spera che la sua storia possa essere un esempio per tante vittime di bullismo in modo che trovino la forza di reagire. Ma anche un monito per i carnefici, forti dietro un profilo Facebook o perché capaci di agire solo se in branco: "Attenti - avverte la giovane cagliaritana - le vostre azioni possono distruggere una vita"

Intanto, lo scorso febbraio, la studentessa ha presentato una denuncia ai carabinieri di Cagliari.

Come è nata questa terribile diceria?

"Non lo so. Me lo chiedo ancora ma non ho mai trovato una spiegazione logica. È accaduto improvvisamente. Avevo 13 anni e frequentavo la terza media. Mi vedevo con degli amici, almeno pensavo fossero tali. Un giorno hanno insistito per farmi fumare. Ho detto no e ventiquattr'ore dopo è nata la maldicenza".

La sua vita è cambiata?

"All'inizio ho pensato fosse una banalità che sarebbe durata solo qualche giorno".

Invece?

"La situazione è peggiorata rapidamente. A scuola cadeva un telefono cellulare e venivo additata come responsabile. Ero nel parco e iniziava a piovere: era colpa mia. Poi sono iniziate le dicerie. Invenzioni perfide".

Tipo?

"Chi ha messo in giro questa voce ha raccontato di aver trovato un fazzoletto sporco di sangue con la lettera 'S'. Da qui l'abbinamento con il mio cognome e con Satana. Hanno inventato la notizia della morte di un mio fidanzato".

La situazione è migliorata quando ha iniziato il liceo?

"Per niente. Ho sperato che l'estate mettesse la parola fine a questa assurda vicenda. Invece il passaparola, con i social network e con WhatsApp, ha provocato una valanga. Non ho potuto far nulla per fermare questo schifo. Alle medie avevo un'amica che non mi lasciava mai sola. Alle superiori per fortuna i miei compagni erano con me. Mi hanno protetta. Ma quando uscivo, ero sola. Nome e cognome venivano usati da migliaia di ragazzi. A scuola, un giorno, mi hanno lanciato cibo e penne dalle scale. Sono corsa via per la vergogna".

La conoscono tutti di persona?

"No. Quasi tutti ripetevano questa cosa senza sapere che dietro c'era una ragazza che stava soffrendo. Il mio nome veniva urlato durante una partita di calcio o di pallavolo".

Episodi che difficilmente dimenticherà?

"Sono dovuta scappare più volte dai pullman per evitare di assistere alle 'toccatine' scaramantiche. Per anni ho evitato le feste. Sono andata solo a quella del diploma ma sono dovuta scappare quando un ragazzo ha usato il mio nome".

E i social network?

"Immancabili i post su Facebook o le 'storie' su Instagram. Sono circolati dei video. In uno si vede un ragazzo che invita, ridendo, coetanei e bambini a ripetere il mio nome e ad adottare le consuete squallide contromisure. Sono stati creati dei gruppi su WhatApp. Mi ha fatto molto male scoprire che erano presenti delle persone che consideravo amiche".

Dove ha trovato la forza per andare avanti?

"Grazie ai pochi che mi sono stati vicini e ovviamente alla mia famiglia. All'inizio ho tenuto nascosta la cosa ai miei genitori: poi quando hanno visto che ero diventata taciturna e che mi stavo chiudendo in me stessa si sono preoccupati. Ho raccontato tutto. Ora cerco di andare avanti, ma a volte soffro di paure, insonnia e stress".

Perché ha voluto raccontare questa terribile vicenda?

"Qualche mese fa ho iniziato l'Università. Speravo che almeno lì questa diceria non arrivasse ma sbagliavo. Un mio collega, Samuele, mi ha voluto conoscere. Con la mia autorizzazione ha lanciato una campagna contro il bullismo, raccontando la mia storia e utilizzando l'hashtag #thinkaboutit. Spero serva. Per me e per tutte le vittime di queste schifezze: non tutti sono forti per sopportare un'esperienza così. Ho perso la mia adolescenza. Ora vorrei riprendermi la vita".

Matteo Vercelli

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