Siamo ormai alla vigilia delle elezioni europee. Dai dibattiti emerge di tutto: dentro o fuori dalla UE, più Italia, più Europa, meno poteri, più flessibilità. Emergono visioni nuove, a volte sogni, pure stravaganti. Viene il sospetto che molti dei candidati conoscano poco l'Unione europea e si propongano intenti immaginari, che poi, se eletti, si tramuteranno in provocazioni inconcludenti, non per questo meno pericolose.

Taluni sembrano dimenticare che la tensione tra spinte funzionaliste e spinte governative (oggi diremmo sovraniste) non è certo una novità. La prima Comunità europea, quella di difesa comune (CED), fallì proprio per questo. Gli Stati fondatori (in particolare la Francia) non vollero cederle lo scettro più autentico della sovranità: la forza.

Eppure quando le Comunità europee vennero fondate il bilancio era di oltre 80 milioni di morti: tanti ne avevano fatti le due guerre mondiali con una quantità di feriti, mutilati, danni alle città, le campagne, le infrastrutture ecc. che nessuno è mai riuscito a stimare compiutamente. Ma quel bilancio, evidentemente, non bastò a indurre i fondatori a rinunciare ai propri eserciti in favore di una difesa comune. E fu dunque il progetto economico il motore dell'aggregazione, precedendo, di molto, quello politico, ad oggi non ancora compiuto.

Ne è nata così una creatura strana. Gli stessi giuristi (cosiddetti comunitaristi) non riescono a definire la UE. Cresciuta tra spinte contrapposte, è un ibrido: con un Parlamento subalterno, due esecutivi (Consiglio e Commissione), che spesso collaborano poco, una moneta unica (non per tutti), senza un corrispondente, unico braccio economico-finanziario, e con invece un potere giudiziario al contempo defilato e preponderante: vero, recondito architetto dell'edificio europeo.

La UE è un gigante d'argilla, un grande regolatore senza mani e senza piedi, che demanda l'esecuzione dei suoi atti agli Stati membri e che ha un apparato amministrativo esiguo. I tanto odiati eurocrati sono poco più di 40.000 per 500 milioni di europei. Il solo Comune di Roma, nel suo complesso, ha circa 60.000 dipendenti per meno di 3 milioni di residenti. Anche il bilancio europeo appare esiguo rispetto a quello capitolino.

Cosa possiamo dunque pretendere da una UE che da organizzazione internazionale poteva diventare Stato federale ma, per interdizione degli Stati membri, si è fermata a metà del guado (complici anche i referenda francese e olandese, contro la Costituzione europea, nel 2005)? Cosa pretendiamo da una bicicletta senza manubrio (forse anche senza sellino) che tutti criticano, tutti vorrebbero sterzare dalla propria parte e al contempo tutti vorrebbero più sicura e più veloce?

A sentire gli aitanti candidati alle elezioni la UE dovrebbe gestire l'immigrazione, combattere la concorrenza sleale straniera, prevenire gli attacchi informatici e i cambiamenti climatici, garantire la coesione economico sociale, una politica commerciale comune ecc.

Al contempo però essa dovrebbe lasciare liberi gli Stati di convenire rapporti bilaterali, spendere e spandere a piacimento e evitare di metter becco nelle loro decisioni. In buona sostanza: una UE a fisarmonica, capace di estendersi e ritrarsi, che dovrebbe fare mille cose in più magari con meno risorse e meno poteri. Insomma: un vero delirio elettorale. Ma stavolta il battage antieuropeo si è fatto davvero assordante.

Sono ormai anni che le classi dirigenti nazionali nascondono la loro inettitudine e le loro gravi responsabilità agitando il feticcio europeo. Ed è illusorio pensare che questo non abbia provocato un danno di immagine irreparabile. Andiamo quindi a svolgere domani non un esercizio democratico, volto a selezionare le migliori idee e i migliori candidati, ma un ennesimo, malcelato referendum: pro o contro la UE, non troppo dissimile da ciò che l'irresponsabile Cameron propose agli inglesi.

Cambia solo il quesito referendario ma l'esito sarà simile: spediremo a Strasburgo una pletora di twittatori seriali, con poche idee e confuse, animati dal solo fine di sabotare il processo europeo, che invece di essere orientato a salvaguardare i nostri valori ed i nostri interessi, correrà il rischio di incepparsi definitivamente, con buona pace degli uni e degli altri. Poi, come gli inglesi, ce ne pentiremo.

Aldo Berlinguer

(Università di Cagliari)
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