Da quando esiste il Partito Democratico la liturgia delle primarie celebra l'indicazione del leader dello schieramento, "ma anche" il candidato all'eventuale carica di presidente del Consiglio, ed è stata adottata innumerevoli volte a livello regionale e comunale per indicare aspiranti governatori e sindaci. Ultimamente la formula ha cominciato ad avvertire l'usura del tempo.

Da quando Prodi nel 2005 venne eletto leader dell'Ulivo con un'affluenza superiore ai 4 milioni di voti, la partecipazione dei simpatizzanti piddini all'elezione del proprio "capo" è andata costantemente diminuendo. Certo, alla base della crescente disaffezione vi sono senza dubbio la vistosa emorragia di consensi nel centrosinistra in favore di nuovi soggetti che hanno raccolto quell'eredità e l'astensione. Ma non solo. Inizialmente l'esperimento delle primarie è stato avvertito come uno straordinario strumento di democrazia diretta, perché consentiva all'elettorato di scegliere per la prima volta il proprio leader, sottraendo questa funzione alle segrete stanze dei vertici di partito. Un'operazione all'insegna della trasparenza e della genuina partecipazione, che è riuscita a coinvolgere una società come quella italiana, da sempre diffidente nei confronti della politica.

Questa formula, però, si sta rivelando sempre più inefficace. La competizione fra aspiranti candidati ha risentito ultimamente dello stesso vizio d'origine, perché ha replicato con altre modalità la tendenza a selezionare in maniera altrettanto poco trasparente le candidature destinate a contendersi la guida dello schieramento.

Allo stesso tempo fra i militanti si è radicata la convinzione di eleggere insieme al segretario del partito un leader indiscusso e salvifico che, tramite una modalità che in alcuni casi assume caratteristiche plebiscitarie, è autorizzato ad accentrare nelle proprie mani l'onere della rappresentanza politica che, viceversa, dovrebbe essere condiviso con l'intera comunità di partito. Ne scaturisce così non un leader di tutti, ma un leader sopra tutti.

Da quel momento in poi si è abbattuta sull'area democratica una specie di maledizione: chi si è affermato nelle primarie è quasi sempre andato incontro a una sconfitta nella successiva competizione in cui ha gareggiato. Sarebbe semplice ricondurre la ragione di una lunga sequela di sconfitte subite recentemente dal centrosinistra al contingente momento politico, ma sarebbe ingenuo non accorgersi di come, sempre più spesso, tutte le diverse opposizioni interne al Pd (a turno) abbiano svolto un ruolo determinante nel rendere più complicato affrontare ogni tornata elettorale. In poche parole, chi ha perduto ha poi giocato contro lo stesso partito e l'intera coalizione, autorizzando il ricorso alla metafora calcistica di non accettare il risultato configuratosi e di scappare con il pallone.

Tutto ciò conferma quanto sia critico il livello di convivenza fra le diverse anime e le diverse identità che costituiscono il Partito Democratico, che si definisce con orgoglio "plurale". Ma fintantoché la pluralità non si tradurrà in ricchezza e in consensi, rivelandosi una guerra civile fra gruppi più o meno armati, le primarie partoriranno solo condottieri senza truppe, destinati al massacro contro formazioni in grado di catalizzare il consenso attingendo persino al bacino elettorale tradizionalmente di centrosinistra.

A questo proposito sorge spontanea una riflessione in relazione alle future primarie che il centrosinistra cagliaritano vorrà organizzare in vista del rinnovo del consiglio comunale. Per le regionali l'area progressista ha scelto un leader senza passare dalle primarie e, nonostante la sconfitta, è riuscita a ridurne i margini compattandosi dietro un nome condiviso dall'intera coalizione. Adesso si appresta ad affrontare la competizione per conquistare la carica di sindaco metropolitano, ma il rischio è di arrivarci con un elevato numero di aspiranti così da non consentire una sincera aggregazione intorno al nome del vincitore. Non resta che dire: primarie sì, ma con giudizio.

Marco Pignotti

(Docente di Storia della Comunicazione politica, Università di Cagliari)
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