Dragana Ahmetovic piange, singhiozza, si accascia sulla sedia a un passo dai giudici e dal marito chiuso in gabbia, crolla sul tavolino, quasi sviene e la polizia penitenziaria è costretta a chiamare il 118 perché le siano assicurate le opportune cure. In un’aula semivuota di Corte d’assise d’appello ha appena finito di confessare l’omicidio della piccola figlia Esperanza, uccisa nel dicembre del 2018 quando ancora non aveva compiuto due anni. Pochi istanti che segneranno per sempre la vita della coppia: dentro il furgone che faceva da tetto alla famiglia, la bambina «piangeva urlando» come gli altri quattro figli e «io non stavo bene dopo il parto». Così, per motivi impossibili da comprendere, «le ho messo un piede sopra». Tanto è bastato perché la bimba morisse soffocata. Poi il corpo, quel che ne era rimasto, era stato buttato nel fiume Cixerri. Non è mai stato trovato. «Vorrei tornare indietro», dice guardando nel vuoto.

Morte e condanna

La donna già in passato aveva scritto diverse lettere, indirizzate al marito, nelle quali chiedeva scusa per quel che aveva fatto, e nel maggio 2019 aveva rivelato quanto a suo dire accaduto anche al pubblico ministero Guido Pani. Il magistrato inquirente però aveva contestato a entrambi l’omicidio volontario, la distruzione di cadavere, la simulazione di reato e l’incendio doloso del veicolo nel quale, così aveva detto inizialmente la coppia, la piccola era morta. Alla lunga le diverse dichiarazioni rese dai genitori erano state ritenute inattendibili (quando inquirenti e Polizia avevano scoperto la sua responsabilità sulla scomparsa, la coppia avevano parlato prima di un rogo fatale, quindi del presunto rapimento della bimba da parte di un clan rivale, poi di una morte accidentale dovuta a varie patologie della figlioletta) e il giudice delle udienze preliminari Giampaolo Casula aveva inflitto 20 anni di carcere a tutt’e due.

L’ammissione in aula

La sentenza di secondo grado è prevista per il 10 dicembre. A ottobre la procuratrice generale Liliana Ledda ha chiesto la conferma della condanna, quindi hanno parlato gli avvocati difensori Federico Delitala e Michele Satta. Ieri davanti alla Corte (presidente Paolo Costa, a latere Alessandro Castello) si è seduto per primo l’uomo e ha ribadito la sua «innocenza». Ha sostenuto che quel giorno era andato a fare la spesa in un supermercato a Selargius e, tornato al furgone, la moglie gli aveva detto che Esperanza era morta soffocata dalla coperta nella quale lei la aveva avvolta; avrebbe voluto portarla in ospedale ma lei lo aveva convinto che sarebbero stati accusati della disgrazia e i Servizi sociali avrebbero potuto toglier loro gli altri figli. Quindi si erano disfatti del cadavere. «Sono ancora distrutto. Se fossi stato io a ucciderla, l’avrei già confessato. Non ne sopporterei il peso». Poi è stata la volta della moglie. «Se fossi andata io a fare la spesa», ha detto, «ora non saremmo in questa aula. Mio marito voleva portarla subito in ospedale, dissi no».

Andrea Manunza

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