In Sardegna voleva fare il colpaccio. Esordio con il botto alla guida del dipartimento delle carceri italiane. Un blitz carico di simbologie. Una carovana di auto da far invidia a un capo di Stato. Picchetto d'onore alle porte di Badu 'e Carros e del carcere cagliaritano di Uta. Abbigliamento sbarazzino per uno che passa per essere un sofista del buon gusto. Orari imprevedibili, nessuna convocazione e soprattutto silenzio assoluto sulle ragioni della missione in terra sarda. Bernardo Petralia, Dino per gli amici, il numero uno dell'amministrazione penitenziaria, da tre mesi a capo del Dap, lascia il carcere alle pendici di Monte Arcosu, a due passi da Cagliari quando le lancette non hanno ancora varcato la soglia delle diciotto. Scuro in volto, nonostante la mascherina anti-Covid. Era sbarcato in Sardegna ventiquattro ore prima convinto di poter portare a casa un risultato in grado di far salire le sue quotazioni in via Arenula, sede romana del ministero della Giustizia. Niente di tutto ciò. A Roma rientra nella serata di ieri. Con le pive nel sacco. Il blitz che doveva restare segreto finisce nella prima pagina del nostro giornale e l'escalation dei sopralluoghi fa naufragare senza appello il sogno di togliersi molti mal di testa scaraventando in Sardegna il gotha di mafia, camorra e 'ndrangheta.

Il sogno d'estate

Il piano per trasformare, sotto il caldo d'estate, l'Isola in una nuova alcova per capimafia e boss di ogni genere fallisce con l'incedere dei passi all'interno delle strutture di Nuoro e Cagliari. La disfatta del blitz è un escalation di problemi, alcuni risolvibili altri complicati. Non si fermano solo gli orologi ma anche i calendari: l'agognato agosto o il disperato slittamento a settembre per deportare nell'Isola i nuovi 120 eredi di Riina e Provenzano resta un sogno di mezza estate. Lo avevamo anticipato e così è stato: nel carcere di Badu 'e Carros passa in rassegna la "porcilaia" e il reparto femminile. Dritto senza preamboli: fatemi vedere i reparti liberi o che si potrebbero facilmente liberare. Non ha altro per la testa. Ci sono venti tagliatori di gola e aspiranti padrini che creano subbuglio nelle carceri di mezz'Italia e devono essere sbattuti urgentemente lontani dai riflettori nazionali, ovviamente in Sardegna.

Nuoro - racconta Petralia al personale e a qualche sindacalista interno alla struttura - è un carcere fiore all'occhiello. Tradotto significa che si tratta di una struttura penitenziaria temuta, dove chi viene trasferito deve sperare ogni giorno di potersene andar via. E per farlo ci sono solo due modi: mettere in subbuglio la struttura o collaborare con la giustizia. Nessuno, e tantomeno Petralia, lo confermeranno mai ma la detenzione nel carcere nuorese è il maggior viatico per una confessione - collaborazione. Il numero uno del Dap, si vocifera negli ambienti, è un istigatore alla consegna delle armi, lavora per implementare le gole profonde delle organizzazioni criminali. E probabilmente si è convinto che spedire questi criminali in terra sarda sia il sentiero più rapido per nuove confidenze utili a mettere in ginocchio le organizzazioni mafiose e non solo. Una visione confusa e surreale dell'Isola di Sardegna, scambiata per una grande Pianosa, l'isolotto deserto dove arrivarono i primi 41 bis della storia. In realtà lo sbarco di una nuova valanga di boss in una regione con un milione e 650mila abitanti, con attività economiche e sociali, è tutt'altro che consigliabile.

Passa in rassegna la "porcilaia". I muri incrostati di muffa sono stati ricoperti di nuovo intonaco. I riconoscimenti tra l'interno e l'esterno di quel braccio blindato passano per i codici vocali degli agenti del Gom, Gruppo operativo mobile. Sono loro che presidiano un manipolo di cinque terroristi jiaddisti dislocati nel carcere barbaricino pronti ad essere spediti altrove, magari a Sassari. Ed è quel nucleo speciale già dislocato nel capoluogo nuorese che faciliterebbe l'arrivo dei nuovi ospiti.

Venti capimafia a Nuoro

Per spedire i 20 capimafia agognati da Petralia in quello che fu l'ultimo carcere di Graziano Mesina, però, non bastano quelle venti celle da sepolti vivi tra la vecchia "stalla dei maiali" e la rinnovata ala del braccio femminile. È l'esterno del carcere a far saltare i piani. Il muro di cinta è inadeguato ad un carcere di sicurezza, ci sono molte falle strutturali e manca totalmente l'intercinta, un secondo anello di grate e reti in grado di rafforzare le misure di sicurezza verso l'esterno. Petralia e il suo vice Roberto Tartaglia lasciano Badu 'e Carros con la consapevolezza che l'ipotesi reparto 41 bis a Nuoro dovrà attendere ancora. Il capo del Dap potrebbe forzare la mano e fregarsene di accorgimenti ulteriori e spedire a Badu 'e Carros, senza ulteriore preavviso, i 20 dannati del fine pena mai. La tensione in capo ai 41 bis, però, è tanta e tale che, probabilmente, il rischio sarebbe troppo alto per un capo dipartimento appena insediato. Varca il portone d'uscita della Caienna nuorese con la convinzione che, comunque, porterà a casa il pezzo grosso della missione sarda: il carcere di Uta.

Il viaggio dalla Diramazione Centrale Nuorese sino alle saline Contivecchi, bianche candide come non mai, porta d'ingresso del nuovo carcere di Uta, scorre veloce in una colonna marciante di mezzi blindati. I due vertici, nominati tre mesi fa dal ministro della Giustizia in persona, assaporano la rivincita. Le loro carte segnano 110 dieci nuovi esponenti di mafia e camorra da sbattere ai confini della zona industriale di Macchiareddu.

Tutti sull'attenti

Le pale eoliche davanti alla casa circondariale che ha sostituito il panoramico carcere di Buon Cammino si sono fermate. Anche loro sull'attenti, immobili. Si apre l'infinito cancello. Sull'uscio d'ingresso i direttori delle strutture penitenziarie sarde, da Oristano a Uta, dai vertici sardi del Dap al picchetto d'onore degno delle più ossequiate visite di Stato. Una festa, mancano solo i fuochi d'artificio ma ci sono le alte uniformi. Soprattutto c'è il pienone. Personale a gogò. Con un passa parola d'altri tempi vengono trattenuti in servizio tutti gli agenti dei turni della mattina, quelli entrati alle sei del mattino e che sarebbero dovuti uscire alle dodici e coloro che hanno timbrato il cartellino alle otto e sarebbero dovuti smontare alle quindici. Costretti a suon di sorrisi stretti a restare in servizio sino alle diciotto. Il risultato è d'impatto: un carcere pieno di personale. Un'immagine assiepata in periodo di Covid utile a pavoneggiare efficienza di facciata. In realtà a Uta, come nel resto della Sardegna gli agenti mancano e il rapporto tra detenuti e personale è tra i più bassi d'Italia. L'inviato di Bonafede è uomo navigato e sa bene che quel personale è lì per disposizioni superiori e che la realtà è tutt'altra. L'istituto era stato tirato a lucido, come si conviene per le visite del capo. Peccato che Petralia non avesse alcuna intenzione di perdere tempo. Aveva varcato il Tirreno con l'uccello d'acciaio dell'Alitalia con un unico obiettivo: spedire in vacanza in Sardegna, già ad agosto, i capimafia più irrequieti o quelli che, con una permanenza nella Caienna sarda, avrebbero chiesto un amplificatore per cantare. Niente fronzoli. Per dovere d'ufficio passa svogliatamente in rassegna il picchetto imbavagliato da mascherina d'ordinanza e poi subito la disposizione perentoria: accompagnatemi nel reparto del 41 bis. Per arrivarci deve attraversare l'intera cittadella carceraria, sino al punto estremo di contatto tra il regime ordinario e quello speciale. È in quel punto che si sarebbe dovuto segnare il trapasso tra la pena limitata nel tempo e quella senza fine. I tavoloni di legno che bloccavano il confine tra il giorno e la notte sono stati rimossi. Accesso libero, verso quella che da almeno dieci anni sarebbe dovuta essere la Caienna del 41 bis del carcere di Uta. La storia racconta ben altro, con inchieste e incompiute infinite. Quando entrano è il gelo. Non si guardano nemmeno tra loro. Attraversano quel corridoio senza luce e rivolgono lo sguardo a quelle tanto agognate celle speciali. Percepiscono, in attesa di conferme, che quelle stanze con piccole grate e poca aria non sono pronte e non lo saranno nei tempi che avevano preventivato. Del resto non servirà la conferma del capo cantiere per capire che quelle suite d'oro per camorristi e mafiosi ad agosto resteranno vuote. Il flop del blitz è nella voce sussurrata nell'andito: quelle stamberghe non saranno pronte nemmeno per Capodanno. Niente panettone e champagne.

Cento operai e cento milioni

Servono almeno cento operai si dice e servono altri soldi. Più che un carcere una macchina mangia soldi. Per finire l'inferno di Uta e il reparto dei capimafia bisognerà sfondare il tetto dei 100 milioni di euro, visto che 94,5 se ne sono già andati con tanto di inchiesta penale. L'invio dei novelli Riina e Provenzano non sarà possibile, però, nemmeno per l'Epifania. C'è un piccolo particolare di cui ci si è dimenticati: i 41 bis hanno bisogno di cure mediche e spirituali. E sia per le prime che per le seconde non possono andare a spasso per ospedali o parrocchie. Si sono dimenticati di realizzare l'infermeria-ospedaletto e la chiesa necessaria per espletare gli esercizi spirituali. Serve un nuovo appalto. Il volo delle diciannove e trenta è decollato da Cagliari con due minuti di ritardo. A bordo Petralia e Tartaglia. Con loro il sogno di trasformare la Sardegna in una Caienna di Stato.

Mauro Pili
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