Evviva le bollicine, evviva il Prosecco, evviva il Made in Italy. In un pianeta, la Terra, dove tutti sono convinti di poter far tutto salvo fermarsi a uno sbiadito tarocco, ecco che il riconoscimento dell'Unesco deve inorgoglire gli italiani, apprezzino gli spumanti o non vadano oltre l'acqua minerale o, massimo della trasgressione, l'aranciata.

Le colline di Conegliano e Valdobbiadene sono diventate patrimonio mondiale dell'umanità. Un'altra botta di vita straordinaria per un vino a Denominazione di origine controllata che, lo scorso anno, prima ancora della benedizione dell'Unesco, aveva venduto 466 milioni di bottiglie. Con un fatturato di due miliardi e mezzo di euro, il Prosecco è il vino italiano più esportato nel mondo. In provincia di Treviso gli ettari coltivati sono 25 mila. Gli stessi che, in Sardegna, ospitano decine di vitigni, autoctoni o di importazione. Dalle nostre parti la superficie è tre volte inferiore rispetto ai primi anni Ottanta, alla vigilia degli espianti selvaggi finanziati da Mamma Europa con trenta denari.

A guidare la buona sorte del Prosecco c'è un sistema unico di tutela articolato in tre consorzi (la Doc e due Docg) ma con un solo presidente: abbraccia migliaia di produttori di cinque province venete e quattro del Friuli Venezia Giulia. Il bollino Unesco è arrivato per la provincia di Treviso, ma tutto l'universo-Prosecco ne trarrà beneficio. E tutti ne sono consapevoli. Che invidia. Da italiani brindiamo al successo delle bollicine del nostro Nord-Est, da sardi guardiamo alle nostre (non sempre nobili) battaglie per valorizzare i territori.

E così, per esempio, ecco il Cannonau di Sardegna Doc e le sue tre sottozone - Nepente, Jerzu e Capo Ferrato - tutelate all'interno di due consorzi regionali che parlano lingue diverse nonostante il vino sia lo stesso. Qualche giorno fa un gruppo di produttori della Planargia ha avuto mandato dal ministero delle Politiche agricole per tutelare, attraverso un consorzio, la Malvasia di Bosa Doc. Tutti d'accordo? Ma quando mai. C'è chi parla di tradizione, chi di novità che guardino al mercato. Un dibattito che non trova sintesi. È proprio vero: centu concas. Non ci resta che esultare per Conegliano e Valdobbiadene e invidiare gli italiani del Veneto. Già, il Veneto: compresa la Glera (l'uva che regala la base del Prosecco), è il primo produttore italiano di vino con 10 milioni di ettolitri, un quinto del totale. Le cantine che imbottigliano sono (appena) un migliaio. Dalle nostre parti si produce l'1,5% del vino tricolore (17 volte meno del Veneto) ma i produttori, con tanto di etichetta, sono 300. C'è chi produce milioni di bottiglie, chi duemila. Insomma, una cantina sotto ogni campanile. Che sarà pure cosa buona e giusta per l'orgoglio di famiglia, ma senza rete affacciarsi sul mercato globale era e resterà un'impresa.

A proposito di Unesco, il sito nuragico di Barumini è da più di vent'anni patrimonio mondiale dell'umanità. E i nostri archeologi hanno trovato tracce, nell'Isola, dei più antichi vitigni del Mediterraneo occidentale. Uno più uno, in qualunque latitudine, fa due. Ma qui, a parte qualche parola al vento, nessuno ha mai pensato a una bella campagna di marketing legata al vino dei nuragici accompagnato, oggi, dal sorriso dei nostri giovani e bravi vignaioli, con sempre più donne in campo. Speranzosi, accontentiamoci della solita reclame della Sardegna. La Giunta regionale, assente giustificata, è arrivata tardi. E così, a luglio, ha investito un milione e 200 mila euro affidandosi alla solita immagine di Tuerredda nelle pagine dei quotidiani nazionali. Tuerredda, sia chiaro, è un paradiso terrestre, ma buttata lì, per il terzo o quarto anno consecutivo, rischia di inflazionarsi un po'. Ma tant'è, sa fantasia. In attesa di sviluppi, in alto i calici. Di Prosecco, manco a dirlo.

Emanuele Dessì
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