Il Comitato promotore dell'inserimento in Costituzione del principio d'insularità, ovvero del riconoscimento del grave svantaggio naturale derivante dalle condizioni d'insularità, che andrebbe compensato con maggiori trasferimenti statali, si sta attivando per ottenere la calendarizzazione in Commissione Affari costituzionali del Senato della seguente proposta di modifica dell'articolo 119 della Costituzione: "Lo Stato riconosce il grave e permanente svantaggio naturale derivante dall'insularità e provvede alla tutela dei diritti individuali e inalienabili garantiti dalla Costituzione. La Repubblica dispone le misure necessarie a ricostituire una effettiva parità ed un reale godimento dei diritti".

La proposta, sostenuta da 100 mila firme, è stata depositata in Senato un anno fa e da allora è caduta nel dimenticatoio. Il presidente della Commissione, il leghista Stefano Borghesi, nei giorni scorsi è caduto dalle nuvole: della proposta non sapeva niente; tuttavia, dopo un incontro col presidente del Comitato promotore, ha promesso il suo appoggio in cambio di un sostegno dei parlamentari sardi all'autonomia differenziata che sta molto a cuore a Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Ammesso che un simile scambio di favori sia politicamente fattibile, conviene alla Sardegna? Temo che la risposta sia negativa, vediamo perché.

Innanzitutto, occorre osservare che, sinora, mai il Parlamento ha approvato modifiche costituzionali d'iniziativa popolare che, se non sono sostenute da una larga maggioranza parlamentare, hanno scarse probabilità di superare la doppia procedura di approvazione delle revisioni costituzionali, che richiedono maggioranze qualificate.

Permangono inoltre seri dubbi di merito. Si può osservare che, così come la proposta è stata formulata, il riconoscimento sarebbe esteso a tutte le isole dello Stato italiano. Lo svantaggio insulare non riguarderebbe perciò solo la Sardegna, ma anche la Sicilia, che potrebbe rivendicarne i benefici. Le due isole, tuttavia, proprio in quanto isole, godono già dell'autonomia speciale, che consente loro di trattenere nel bilancio regionale la maggior parte delle principali imposte statali (Irpef, Iva, Imposte di fabbricazione).

Di tale abbondanza di risorse non è che le due Regioni abbiano fatto un uso proprio oculato e funzionale allo sviluppo economico, anzi Sicilia e Sardegna restano tuttora tra le Regioni meno sviluppate d'Europa.

La richiesta di autonomia differenziata da parte di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna costituisce, di fatto, la reazione neanche troppo velata alla vera o presunta dissipazione di risorse imputata alle Regioni a Statuto speciale e, in particolare, proprio alla Sicilia e alla Sardegna.

Se un accordo politico-parlamentare si realizzasse tra Regioni ricche ad autonomia differenziata e Regioni povere ad autonomia speciale, la conseguenza dell'accordo sarebbe lo sfascio definitivo dello Stato centrale, per sostituirlo con una pluralità di staterelli regionali che gestirebbero in autonomia quasi tutte le competenze oggi attribuite allo Stato.

In cambio, per quanto riguarda la Sardegna e la Sicilia, dell'elemosina di qualche trasferimento monetario aggiuntivo da risucchiare nelle spese improduttive dei rispettivi bilanci regionali. Per avere un'idea di ciò che potrebbe succedere, è sufficiente immaginare un'estensione delle disfunzionalità oggi esistenti nella sanità regionale anche agli altri settori dell'economia. Non credo che uno scambio del genere possa essere conveniente né alla Sicilia, né alla Sardegna. Semmai, se si potesse tornare indietro, sarebbe meglio riaccorpare a livello nazionale anche la sanità pubblica. Ne guadagnerebbe in efficienza.

Per concludere, agli amici del Comitato promotore suggerirei molta cautela. "Né col Nord, né col Sud" è solo uno slogan, anticamera di una fregatura. Meglio rivolgere l'attenzione ai veri problemi dello sviluppo regionale (sanità, trasporti, energia), piuttosto che ai falsi problemi d'immagine dell'insularità in Costituzione.

Beniamino Moro

Docente di Politica Economica

Università di Cagliari
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