A giudizio di Emilio Lussu, l'autonomia doveva essere l'abito da lavoro d'ogni giorno per la politica sarda, e non certo - come temeva potesse avvenire - quello da indossare solo nel "dì di festa". Con ciò intendeva che dovesse essere intesa come una costante di impegno e di applicazione quotidiani, e non una semplice condizione da rivendicare e da festeggiare, una volta all'anno con canti e balli, magari in Sa die de sa Sardigna.

Aveva certamente ragione a preoccuparsi perché, da qualche tempo a questa parte, parrebbe che l'autonomia, con la sua cultura e i suoi valori, è più celebrata a parole che vissuta nell'agire quotidiano della nostra Regione. Nel senso che anch'essa ha seguito la politica nel suo declino, e oggi le si trova accomunate nel giudizio critico, e sostanzialmente negativo, da parte della pubblica opinione.

C'è anche chi ha parlato di un sostanziale fallimento, o almeno d'una grave crisi di efficienza e di adeguatezza, della sua istituzione politica, la Regione, appunto. Dimostratasi troppo debole, o incapace, nel sapere tutelare politicamente gli interessi della società sarda nei confronti dello Stato centrale. Tanto da essere ritenuta niente altro che l'anello terminale, se non proprio una semplice succursale, di quello stesso potere. Così che al potente e contestatissimo centralismo romanocentrico, si sarebbe insediato un altro centralismo, altrettanto inviso e nocivo, attribuito alla stessa capitale regionale.

Le ragioni? Si è parlato di una caduta verticale della cultura dell'autonomia, cioè di un suo ridursi a nulla più che ad un continuo, e spesso sterile, confronto-scontro con lo Stato, onde ottenere più competenze e risorse, secondo un'inveterata prassi di querule istanze rivendicazioniste. Si è ancora sostenuto che nei palazzi regionali avrebbe prevalso quella che uno studioso attento come Guido Melis definirà "l'amministrativizzazione" della politica, cioè l'essersi ridotta alla semplice tutela di microinteressi clientelari più che all'elaborazione delle più opportune scelte riformiste, utili per avviare il progresso dell'isola. Per dirla ancor più chiaramente, ad una Regione dell'autonomia politica, immaginata ed intesa come esecutrice e tutrice del suo rifiorimento socio-economico, si sarebbe sostituita, per una serie di errori, una Regione della burocrazia, niente più che un ufficio decentrato di un potere reale rimasto al di là del mare.

Forse aveva ragione Camillo Bellieni nel sostenere quanto in molti sardi fosse carente la capacità nel comprendere il significato ed il valore dell'autonomia come cultura di governo, tanto da farla risultare niente altro che "un indecifrabile geroglifico egizio". Molto critico, ancora, sul fatto che nella coscienza di molti sardi l'autonomia risultasse solo l'altro nome del rivendicazionismo nei confronti di Roma, come ieri di Torino e l'altro ieri di Madrid. Non c'era quindi da stupirsi se quell'incomprensione avrebbe prevalso, e tuttora permanga, come una tara endemica di un popolo che sente sopra di sé, come destino, l'essere rimasto colonia altrui.

Cito questo perché si è fortemente convinti che l'autonomia regionale debba essere intesa come un fatto chiaramente liberatorio, come una categoria culturale d'emancipazione politica, del volere e sapere ben governare l'isola senza tutoraggi di sorta, del sapere infine ben corrispondere alle esigenze ed alle attese della propria gente. Proprio per questi convincimenti, l'autonomia non può che mantenere tutta la sua attualità. Se sono rimaste bloccate le sue prerogative istituzionali per l'inefficienza delle guide politiche, rimane tuttora come una delle opzioni necessarie per riuscire a ridare alla Sardegna un suo futuro. Perché l'autonomia regionale non può che essere l'altro nome del progresso: lo era stata, almeno come aspirazione, nei fertili anni della prima Regione, lo può ridiventare ancor più oggi. Forse bisognerebbe rinnovarle, oltre l'architettura istituzionale, proprio l'approccio culturale. Cioè quell'insieme di condizioni pre-giuridiche che riguardano la valenza identitaria di un popolo. E che si possono sintetizzare in un "capitale sociale" finalmente condiviso, in un'effettiva coesione culturale, in una concreta solidarietà comunitaria, e ancora in una classe dirigente diffusa e ben qualificata nel pubblico e nel privato.

Paolo Fadda

(Storico e scrittore)
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