"Perché scappano per venire da noi, se in Algeria non c'è nessuna guerra?".

La risposta alla domanda che in molti si pongono ogni qual volta avviene uno sbarco di migranti sulle coste del Sulcis o del Cagliaritano arriva da un'inchiesta del quotidiano "Liberté", che, dopo che il ministero degli Interni di Algeri ha diffuso i dati tragici sul fenomeno migratorio (oltre 200 morti in mare nel 2018), ha raccolto le voci di alcuni familiari di harraga, i giovani algerini che provano ad arrivare sulle coste sarde affidando le proprie vite al mare.

CLANDESTINI PER FORZA - Tra le testimonianze messe nero su bianco, quella di Faiza Kessanti, madre di Abdelhadi Khabet, detto Dadi, annegato durante una traversata a metà novembre.

Ed è la stessa Faiza a sottolineare, per prima cosa, che l'immigrazione in clandestinità non è la prima opzione per i ragazzi algerini.

"Mio figlio - spiega - ha fatto molti viaggi all'estero. E, quando è tornato, ha provato più volte a fare regolare domanda per ottenere un visto, ma gli sono state tutte rifiutate".

"Qui in Algeria, però, si sentiva soffocare", prosegue la donna. "Quindi è stato costretto a trovare altre vie più pericolose per arrivare in Italia, dove sognava di festeggiare i suoi 34 anni. Invece è annegato, proprio il giorno del suo compleanno. Il suo cadavere è stato rimpatriato il 10 dicembre".

NIENTE VISTO - A ribadire che la clandestinità è solo l'ultima spiaggia è anche uno studio di una Ong francese, citato nell'inchiesta da Koceila Zerguine, avvocato della corte di Annaba, la zona dell'Algeria dove avviene la maggior parte delle partenze.

Secondo tale studio, "tre harraga su 5 si sono rivolti ai servizi consolari europei per richieste di visto valide. Un terzo ha rinnovato la richiesta almeno tre volte, senza ottenere nulla".

Risultato: "Le restrizioni alla mobilità delle persone contribuiscono ad amplificare il fenomeno dell'harga (la migrazione, ndr), producendo l'effetto opposto agli obiettivi dichiarati".

LE CAUSE - Quanto alla domanda iniziale - perché i giovani algerini scappano se non c'è la guerra? - la riposta degli intervistati è fatta di una lunga serie di motivazioni. La povertà, disoccupazione (al 12,3% quella generale, vicina al 30% quella giovanile), la cosiddetta hogra (ovvero il senso di disprezzo nei confronti delle autorità, percepite come autoritarie, ingiuste e corrotte), il malessere sociale, i conflitti familiari.

In questa situazione, i giovani sognano inevitabilmente di partire per costruirsi una vita altrove. E, come detto, inoltrano regolare domanda. E solo quando questa, a causa delle politiche restrittive dell'Europa, viene respinta, decidono di mettersi in mare, affidandosi ai trafficanti.

DISPOSTI A TUTTO - "Anche se ho solo l'1% di possibilità di farcela, per cambiare la mia vita, sono disposto a rischiare", dice un harraga, poco più che adolescente, ai microfoni di Liberté.

"Anche con le armi, non è possibile piegare la volontà di un harraga", spiega invece Kamel Belabed, padre di un altro giovane annegato durante un viaggio della speranza, nel 2007, e che da allora, nonostante i 70 anni, ha deciso di impegnarsi per dare conforto e consiglio ai famigliari dei ragazzi che salpano facendo perdere le proprie tracce.

Lo stesso Kamel spiega che i giovani algerini "non fuggono dalla giustizia, ma dalla mancanza di prospettive e dal malessere".

Poi la domanda, retorica, ma non troppo: "È forse un crimine desiderare di abbandonare il proprio paese d'origine per vivere altrove?".

(Unioneonline/l.f.)
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