Flotilla, l’attivista sardo: «A Gaza anche domani, ma barca danneggiata»
Marco Loi, 44 anni, di Villaputzu a Creta ha dovuto rinunciare alla sua missione umanitariaL'intervista all'attivista Marco Loi
Un uomo, il mare e una scelta che va oltre ogni frontiera. Marco Loi, 44 anni, di Villaputzu, con un passato da odontotecnico e una vita passata a solcare le acque come soccorritore marittimo, ha deciso di mettere la propria esperienza nautica al servizio della missione umanitaria diretta a Gaza con la GlobalSumud Flotilla.
La sua rotta, però, si è interrotta bruscamente a Creta, dopo l’attacco dei droni isrealiani che ha reso inutilizzabili le barche su cui viaggiava con altri attivisti internazionali.
Un ritorno amaro, segnato dalla sensazione di non aver ancora compiuto ciò che sentiva necessario. Ma con lo sguardo rivolto ancora una volta verso quel mare conteso.
Marco, cosa è scattato dentro di lei per decidere di prendere parte a una missione così rischiosa?
Più che una scelta, la mia è stata una sofferenza: non per la partenza, ma per quello che i miei occhi vedeva a Gaza. Non ho avuto alcun dubbio, ma solo un peso nel cuore davanti alle immagini di bambini uccisi, famiglie distrutte, persone lasciate a morire nel silenzio. Sentivo che non potevo restare fermo. Allora ho fatto l’unica cosa che so fare bene: prendere il mare e metterlo a servizio di chi ha bisogno.
A casa sua, come hanno vissuto tutto questo?
All’inizio mia madre era terrorizzata. Poi ha capito che per me era una chiamata interiore. È rimasta in ansia, soprattutto quando ha visto i bombardamenti nei video che giravano sui social, ma ha anche capito che stavo cercando solo di dare una mano. Una piccola mano, ma sincera.
Come è nato il contatto con questa rete internazionale di 44 Paesi che formano la Flotilla?
Tutto è iniziato quasi per caso, con la Global March che a maggio cercava di raggiungere Gaza via terra, passando dal valico di Rafah. Ma i confini venivano chiusi uno dopo l’altro, così si è scelta un’alternativa antica e simbolica: il mare, via di libertà da sempre. E lì ci siamo trovati, gente da tutto il mondo, uniti da un unico scopo: aiutare un popolo martoriato e indifeso.
Com’è stata la navigazione? Qual è stato il clima a bordo?
Dura, a volte estenuante, ma anche incredibilmente intensa. Le difficoltà si affrontavano insieme, come si fa in una famiglia. Tra le barche e gli equipaggi si era creata una solidarietà rara, quasi commovente. Ci si aiutava, ci si sorreggeva, ci si guardava negli occhi sapendo che si era nel posto giusto, anche se era il più pericoloso.
Prima della partenza si è occupato per settimane della ricerca delle barche: non solo in Sardegna, ma in tutto il Mediterraneo. È stato complicato trovare quelle adatte?
Sì, è stato un lavoro lungo, ma non ero solo. Ho avuto un gruppo straordinario che mi ha supportato in tutta la Sardegna: mi segnalavano barche, mi aiutavano nella logistica, con una solidarietà concreta e quotidiana. Una volta conclusa la ricerca qui, mi sono spostato in Grecia, dove abbiamo acquistato barche per le Ong di altri Paesi. Alcune provenivano da Stati senza sbocchi sul mare, come l’Austria o la Svizzera: un paradosso che dice molto sul desiderio di partecipare.
Eppure non sono mancate le critiche. Qualcuno vi ha accusati di essere degli irresponsabili, persino degli agitatori. Cosa risponde a queste accuse?
Chi dice certe cose ha i paraocchi. Davanti a un popolo che viene massacrato da mesi, non si può rimanere in silenzio. Non si tratta di bandiere o partiti, ma di umanità. È una questione di coscienza. E chi non lo capisce, forse non vuole capire.
Anche il governo italiano vi ha criticato duramente, accusandovi di voler destabilizzare. Come hai vissuto questa narrazione?
L’ho trovata assurda. Noi siamo un gruppo di civili, non legati a nessuna organizzazione politica. Nessuno su quelle barche pensava o pensa alla politica. Portiamo solo beni di prima necessità e medicinali. I 43 Paesi con cui siamo in contatto, sinceramente, non credo sappiano neppure chi sia Giorgia Meloni.
Ha mai avuto davvero paura? In mare, durante gli attacchi?
Paura vera? No. Ogni attacco ci ha reso ancora più consapevoli di essere nel giusto. Sapevamo che stavamo dando fastidio. Ma quando lanciavano oggetti dal cielo, sì, lì un po’ di tensione si sentiva. Non avevi neanche il tempo di pensare alla paura: dovevi solo proteggere chi era con te, tra cui medici, giornalisti, gente che non era mai salita su una barca prima. Quando finiva e tutti stavamo bene, allora respiravi di nuovo.
Il suo viaggio si è interrotto a Creta. Cosa è successo?
Ero sulla mia barca, la Luna Bark, quando è stata colpita. Per fortuna sono riuscito a trasferirmi su un’altra imbarcazione, la Taigete, una barca a vela veloce, di oltre 15 metri. Ma anche lì, di notte, siamo stati vittime di un sabotaggio subacqueo. La barca è stata danneggiata in modo irreparabile. Anche se a Creta ci abbiamo provato, ma altre imbarcazioni sono andate avanti e non potendo più raggiungere la Flottiglia, ho deciso di tornare in Sardegna, ma continuo a lavorare da terra con loro.
Con che spirito è tornato? Sente di aver lasciato qualcosa in sospeso?
Assolutamente sì. La mia missione non è conclusa. Non può finire così. Se domani ci fosse una barca pronta, io ripartirei. Gaza è ancora là e ha bisogno di noi. Io ci credo ancora.
È ancora in contatto con gli altri attivisti che sono ormai a poche miglia da Gaza?
Sì, li sento ogni giorno. Mi dicono che più si avvicinano a Gaza, più crescono gli atti intimidatori. Navi da guerra che li accerchiano, sottomarini che emergono di colpo accanto alle imbarcazioni. Ma questo non li ferma: anzi, li rende ancora più determinati. La Flottiglia è compatta e ha un solo obiettivo: sbarcare a Gaza con gli aiuti: cibo, medicinali e pupazzi cuciti a mano per i bambini.
Ha parlato spesso del sostegno che ha ricevuto da amici e cittadini sardi.
Sì, ci tengo a ringraziarli. Ennio Cabiddu mi ha sostenuto sin dal primo giorno, dalla ricerca della prima barca, a giugno. Poi ci sono stati dei giovani incredibili, come Alessia, Aurora e Mattia: si sono occupati di tutto, dalla logistica alla preparazione delle imbarcazioni, dalla cucitura delle bandiere, fino a creare i pupazzetti per i bambini di Gaza. Questo è il popolo sardo: silenzioso, ma presente.
In queste ore anche la Spagna, che inizialmente vi sosteneva apertamente, ora ha chiesto alla Flotilla di fermarsi. C’è il timore concreto di una strage?
Sì, purtroppo è un rischio reale. Israele non ha rispetto né per il diritto internazionale, né per la vita umana. Sparano sui bambini, figuriamoci su una flotta straniera. L’ipotesi meno grave, paradossalmente, sarebbe l’arresto. Ma temiamo che possano agire di notte, quando tutto è più difficile da documentare.
Cosa spera che accada nelle prossime ore?
Spero solo che il vento soffi dalla parte giusta a poppa e che le barche possano procedere rapide e sicure. E che arrivino prima delle divisioni militari. È una corsa contro il tempo, ma anche contro il buio.